Il capitano Salah Abu Dabbush infila la chiave. Il lucchetto cigolando si apre. Il fragore della catena srotolata dalle sbarre riecheggia tra le volte. Nell'antro fosco le porte si socchiudono, squarci di luce invadono il corridoio. Illuminano stracci rammendati, panni sbrindellati. Un tempo erano giacche, camicie, calzoni. Ora son cenci laceri appesi a sbarre ed inferriate. Salah spinge il cancello, le porte si spalancano, una marea nera invade il corridoio. Uno scampolo d'Africa gli è attorno. Lo assale. Lui alza le mani, sbuffa, fatica a tenerli lontani. «Via via, andatevene, tornate nelle stanze». Loro manco lo ascoltano. «Salah, capitano.. quando andiamo a casa? Quando ci liberi?». Lui fatica a tenerli. «Guarda sono più di 400 e io sono solo... cosa devo fare?».
Lui e i suoi colleghi libici lo chiamano centro di detenzione. Un tempo era una scuola. Oggi somiglia ad una prigione. Ma è solo una casella obbligata nella grande giostra dell'immigrazione. Il gioco dell'oca passa da qui fuori, dal posto di blocco di Kararim, alla periferia est di Misurata. «Quello è il loro passaggio obbligato, la loro trappola - spiega Salah sporgendosi dalla finestra, indicando il grande scanner termico sotto cui s'infilano camion e furgoni -. Da quando l'abbiamo installato, due mesi fa, ne troviamo a decine. Si nascondono tra le verdure, tra i rottami di ferro... persino tra i rifiuti. Ma è come svuotare il mare con un cucchiaio. A questa porta bussa mezza Africa... E io non so più dove metterla». Apre le aule della scuola e ti spinge tra questo mondo di reclusi in fuga. «Qui teniamo i sudanesi, qui i nigeriani e quelli del Gambia. Qui i somali... là in fondo gli eritrei. Il piano di sotto è per donne e bambini. Li mettiamo per nazioni così s'aiutano e passano il tempo».
Passar il tempo è un bell'eufemismo. Per capirlo basta infilare il naso nel lezzo delle aule sudicie. I sudanesi e i senegalesi son più di settanta in un'unica stanza. Allungati uno a fianco all'altro. Avvolti da un tepore fetido e appiccicoso. Uno si alza, lascia cader la coperta e scopre l'ebano nero della pelle solcato da croste violacee. «È scabbia... l'abbiamo tutti... Ce la passiamo l'uno con l'altro». Salah corre in ufficio, risale con un mucchio di fogli. Te li sventola in faccia. «Non credergli... guarda i test medici. Glieli facciamo appena li prendiamo. La metà di loro sono già malati... altro che scabbia...» La verità di Salah è scritta in rosso o in giallo sulle cartelle mediche dei reclusi. E non è tranquillizzante. Aids ed epatite virale sono endemiche. La scabbia comune come il raffreddore. «Ricordati che arrivano dal Sudan, dal Ciad, dal Niger e passano settimane o mesi nel deserto. Appena oltre il nostro confine cadono nelle mani di altri trafficanti, poi finiscono nei depositi di Sdabia, a ovest di Bengasi. Da lì, dopo altre settimane ammassati uno sull'altro, arrivano qui. E qui non c'è neppure un ospedale. L'Organizzazione internazionale per le migrazioni e l'Alto commissariato dell'Onu hanno lasciato la Libia. Ci chiamano dall'estero per spiegarci come affrontare il problema. Ma che possiamo fare? Li teniamo qui, poi quando siamo pieni li mandiamo a Saba, al centro di smistamento sperando che le ambasciate dei vari Paesi se li riportino a casa. E dopo qualche settimana ce li ritroviamo di nuovo qui. Qualcuno è la terza o quarta volta che passa. Ai loro Paesi ne rientrano assai pochi. Poi a furia di tentare raggiungono gli imbarchi di Tripoli e Zwara. E in una notte son da voi. Ma se voi non fate niente perché dovremmo fermarli noi? L'Onu spende miliardi e poi lascia me e un pugno di colleghi a fermare quest'ondata. Vi sembra giusto? È naturale che arrivino da voi. Chiedete dove vogliono andare e capirete».
Il capitano Salah ci volta le spalle, ci lascia soli. Adesso i prigionieri sono meno guardinghi. Si avvicinano, ti squadrano, confessano. Ayub ha 30 anni. Da cinque vaga per l'Africa. «La mia famiglia è del Darfour. A Nyala abbiamo perso tutto, ci hanno preso anche la casa. Non avevo scelta. Potevo solo decidere se farmi ammazzare a casa o morire scappando. Sogno l'Inghilterra, mio fratello è già lì... la vostra Italia non m'interessa, ma per me è la porta della salvezza. Non ho più un soldo, i trafficanti mi hanno mangiato tutto. Devo arrivare a Tripoli, lavorare e cercare di pagarmi il viaggio per l'Italia. Se morirò si compirà il mio destino. Se ce la farò potrò sperare di vedere l'Inghilterra... e chissà magari perfino l'America...».
Al piano di sotto tra donne e bimbi la tragedia è pure peggiore. Esmek, Melley e Froweyni hanno tra i 20 e i 24 anni. I loro mariti sono tutti in una prigione di Asmara. Esmek nove mesi fa ha partorito Mankam tra le sabbie del deserto. Ora se lo tira dietro appeso al petto come un fardello. Gli altri bimbi sguazzano tra le coperte sudicie, i catini di riso, l'acqua del rancio.
Anche qui - tra lezzo e disperazione - una sola speranza, raggiungere l'Italia, sbarcare nella terra promessa. «Certo posso affogare - sbotta Esmek - ma io e il mio bimbo possiamo sperare di sopravvivere a lungo qui dentro? Se Allah vorrà arriveremo in Italia, altrimenti moriremo. E non dovremo preoccuparci più di nulla».
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