A prima vista, potrebbe sembrare che Benjamin Netanyahu abbia le sue giornate sufficientemente occupate dal fronte bellico che deve gestire a Gaza e, per adesso in forma minore, al confine libanese. Ieri, in serata, si è aggiunta anche la richiesta del Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, di accettare una pausa di tre giorni nei combattimenti per permettere passi avanti nel rilascio degli ostaggi in mano ad Hamas. Ma a ben vedere, i fronti sono ben di più: ce n'è un terzo di guerra, potenzialmente spinosissimo, con l'Iran e i suoi alleati minori, i cosiddetti «proxy» che non sono soltanto Hezbollah e Jihad islamica, ma anche gli Houthi yemeniti, senza dimenticare la Siria dell'arcinemico filorusso Assad. E poi ce ne sono un paio politici da non dormirci la notte, uno interno e uno estero, anche se questo riguarda il suo principale alleato americano: l'opinione pubblica israeliana, per il momento tenuta unita dal patriottismo e da un pericolo che concerne tutti, si spacca sulla sua persona e prevale l'opinione che a emergenza superata egli non solo dovrà farsi definitivamente da parte, ma anche rispondere delle sue responsabilità per il disastro del 7 ottobre; a Gerusalemme perfino i suoi alleati di governo non vedono di buon occhio la sua permanenza al vertice dell'esecutivo dopo la guerra con Hamas, mentre alla Casa Bianca cominciano a temere che si debba considerare Netanyahu (che con Joe Biden non è mai andato davvero d'accordo) più un problema che una risorsa.
Conviene partire dalla fine, per una volta. La testata americana Politico ha ottenuto un documento che riflette le preoccupazioni di molti diplomatici riguardo la capacità dell'amministrazione di gestire la crisi mediorientale. Secondo membri dello staff del Dipartimento di Stato, sta crescendo la sfiducia verso Biden, che a loro avviso dovrebbe alzare la voce con gli israeliani. Circola un documento in cui si chiede che Washington insista per un cessate il fuoco e che critichi apertamente (e non solo in privato) le tattiche militari israeliane e le uccisioni di civili palestinesi anche in Cisgiordania, dove i coloni usano spesso la mano pesante. Questo per evitare che gli Stati Uniti vengano percepiti nel mondo, non solo in Medio Oriente, come un soggetto inaffidabile o peggio.
Anche il capo della diplomazia Antony Blinken ascolta queste critiche. La «tolleranza» americana degli eccessi israeliani potrebbe insomma arrivare al suo limite e il responsabile viene individuato in Netanyahu. C'è disagio, del resto, anche in buona parte dell'opinione pubblica israeliana, tanto da far dire all'ex premier laburista Ehud Barak che Israele ha poche settimane a disposizione per liquidare Hamas prima che si apra un fronte interno. Netanyahu, invece, ieri se n'è uscito annunciando l'intenzione di gestire la sicurezza nella Striscia di Gaza anche dopo l'eradicazione di Hamas, «per tempi indefiniti»: il contrario di ciò che si aspettano a Washington. A sera la conferma ufficiale del Dipartimento di stato. Il premier, spalleggiato dal ministro della Difesa Yoav Gallant e dalla destra, non vuole né l'Anp né soggetti esterni nella Gaza del futuro, mentre il leader centrista Benny Gantz, entrato nel governo di emergenza formato dopo il 7 ottobre, preferisce parlare di una Striscia da cui non provengano più minacce per Israele.
Fronti ostili da tutte le parti, dunque. L'impressione però è che la volpe Netanyahu guardi lungo. La guerra ad Hamas non sarà breve e potrebbe anche allargarsi con conseguenze imprevedibili. Egli certamente immagina se stesso in controllo di una situazione di emergenza di lungo termine, e finché questa durerà il suo redde rationem personale sarebbe rinviato.
Nella sua mente, forse immagina di sopravvivere politicamente a Biden, che i sondaggi vedono malmesso nella corsa alla Casa Bianca. E se al suo posto tornasse il sodale Trump, il vecchio Bibi dalle sette vite avrebbe fatto bingo, o almeno così lui spera.
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