Non basta essere un immigrato integrato per restare in Italia. «Sui permessi umanitari aveva ragione la Lega. L'ha stabilito la Corte di Cassazione. È la migliore risposta agli ultrà dei porti aperti e che vorrebbero cancellare i decreti sicurezza». Esulta il leader della Lega Matteo Salvini e non ha torto visto che in sostanza i giudici della Suprema Corte hanno condiviso e messo nero su bianco, nella sentenza emessa ieri, un principio sul quale l'ex ministro dell'Interno aveva insistito praticamente ogni giorno quando era al governo. Il principio «cardine» del suo decreto sicurezza con il quale ha cancellato la possibilità di ottenere il permesso per motivi umanitari. Proprio la tipologia che non a caso rappresentava un corridoio più ampio, una possibilità in più per ottenere il permesso di soggiorno. Ora sono i giudici supremi a confermare quel principio: non tutti coloro che arrivano sul nostro suolo hanno diritto a restare. Neppure se lavorano o hanno parenti e sono integrati.
La Cassazione infatti scrive che non è sufficiente, per il riconoscimento della protezione umanitaria e dunque per ottenere il diritto a restare, la sola «situazione di integrazione» di un immigrato in Italia per lavoro, studio o rapporti sociali.
Come si è arrivati alla sentenza? Quando Salvini era al Viminale aveva presentato, tra gli altri, tre ricorsi nei confronti di altrettanti stranieri: un bengalese e due gambiani. Il primo aveva ottenuto il permesso perché aveva trovato lavoro stabile a Firenze. Per i due giovani provenienti dal Gambia era stato tenuto in considerazione che il primo studiava all'università di Trieste e aveva buoni rapporti sociali, mentre in Gambia non aveva più nessuna relazione. Per il secondo invece si era fatto riferimento ad una generica situazione di pericolo alla quale sarebbe stato esposto nel suo paese di origine.
Ragioni non sufficienti secondo i giudici per ottenere il permesso di soggiorno. Una sentenza che avrà un impatto per decine e decine di casi sospesi. Per il Viminale il permesso va concesso soltanto a chi spetta lo status di rifugiato, soltanto a chi ha diritto all'asilo politico perché può dimostrare che nel suo paese esiste una «specifica compromissione» dei diritti umani.
Una decisione che in qualche modo contraddice una precedente sentenza dei giudici supremi che nel 2018 avevano ritenuto l'integrazione uno fra i motivi che concorrono al riconoscimento del permesso per motivi umanitari.
La Cassazione con la sentenza di ieri però non ha dato ragione a Salvini su tutti i fronti ed ha stabilito una volta per tutte che il decreto sicurezza non può avere effetto retroattivo. Un chiarimento necessario perché erano state emesse sentenze contrastanti basate su interpretazioni diverse della norma.
Per la Cassazione il decreto sicurezza «non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari» che siano state proposte prima dell'entrata in vigore del provvedimento, ovvero il 5 ottobre del 2018. Per tutte le domande presentate prima di quella data vanno applicate le previsioni dei «casi speciali» che danno diritto a un permesso di soggiorno annuale che sono contenute nello stesso decreto Salvini.
In generale i permessi di soggiorno sono in
diminuzione nel 2018 ne sono stati rilasciati soltanto 242.009, contro i 262.770 del 2017, ovvero un meno 7,9 per cento. Calo dovuto alla riduzione dei permessi concessi per richiesta di asilo: da oltre 88 mila a 55 mila.
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