Dopo settanta e passa giorni, siamo al punto di partenza: Luigi Di Maio vuole a qualsiasi costo la poltrona di Palazzo Chigi, Matteo Salvini cerca di impedirglielo: «Nè io nè lui lo faremo», avverte a sera il capo della Lega. «Troveremo una sintesi»
Non sarà facile: se le trattative sono andate così per le lunghe, ingannando l'attesa con le riunioni del «tavolo di programma» e le mille surreali bozze del «contratto» date in pasto ai giornalisti per distrarli, è solo per questo. Anche i molteplici siparietti sul «premier terzo», con i nomi più improbabili fatti circolare, servivano ad occultare la vera sostanza del braccio di ferro perpetuo che andava in scena negli incontri a porte ben chiuse. Così come la favoletta della «staffetta» tra i due, fatta circolare per indorare la pillola a Salvini.
E ieri, nel decimillesimo vertice tra i due (ovviamente non dedicato alle poltrone perché «noi non parliamo di posti», come hanno più volte ribadito i due aspiranti statisti), si è accesamente discusso solo di questo, e ci si è ritrovati nella stessa impasse. Per Di Maio la poltrona di presidente del Consiglio è irrinunciabile: è lui, nella sua mente, l'unico possibile candidato, e di certo l'unico candidato grillino. Per questo ha offerto alla Lega mari e monti, in cambio di quell'unica garanzia: metà dei ministeri, qualsiasi dicastero fosse di loro gradimento, ogni concessione sul programma. Uscire dall'Euro, rientrare nell'Euro, sparare a vista ai migranti, chiudere l'Ilva, riaprire l'Ilva, togliere il reddito di cittadinanza: qualsiasi proposta del Carroccio va bene, a patto che Salvini ingoi il rospo.
«Ovvio che per noi accettare Di Maio premier sia un problema, perché rischiamo di apparire come i portatori d'acqua di un governo deciso dalla Casaleggio. Ma sarà molto, molto difficile evitarlo», confidava mercoledì il leghista Gianmarco Centinaio ad alcuni amici.
Il fuoco di sbarramento salviniano, negli ultimi giorni, si è spostato lievemente all'indietro: va bene che il premier sia del partito Cinque Stelle, ma non Di Maio. Così sono finiti nel ventilatore i nomi di Bonafede e Crimi, di Fraccaro e Spadafora. E persino quello di Emilio Carelli, che sulle prime deve averci creduto, annunciando di essere «a disposizione». Salvo poi precisare, probabilmente dopo le rimostranze dell'interessato, che «il candidato resta Di Maio».
Il quale Di Maio ha bocciato quei nomi uno per uno, tanto che nel faccia a faccia di ieri Salvini, esasperato, è sbottato: «Allora il premier lo faccio io!». I due si sono lasciati male, partendo ognuno per le proprie destinazioni, e il tavolo programmatico (che era stato trionfalmente sciolto con l'annuncio che il parto era compiuto) è stato precipitosamente riconvocato, per dare un alibi allo scontro reale sui nomi. Che riprenderà oggi, in un nuovo summit a Milano. Del resto, per lunedì Di Maio e Salvini hanno garantito un nome al Capo dello Stato, che vorrebbe dare l'incarico e chiuderla con il circo equestre dei tavoli, dei «contratti» e dei finti candidati premier scovati in oscure università. Dare l'ennesima buca a Mattarella sarebbe imbarazzante, e i due capiscono che si coprirebbero di ridicolo. Anche perché sarebbe difficile nascondere agli occhi dell'opinione pubblica che l'unico vero oggetto del contendere è la poltrona da premier.
In casa grillina si mostrano sicuri di avere il coltello dalla parte del manico: «O Salvini accetta Di Maio, oppure si può scordare il Viminale, l'Agricoltura e tutte le cose che ci ha fatto infilare nel programma. Si dovrebbe ricordare che ha solo il 17%, la metà dei nostri voti», avvertono.
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