L'invasione silenziosa della finanza islamica: affari per 1.500 miliardi

La crescita esponenziale da fine anni '90. Il Fondo Monetario: "Mancano normative"

L'invasione silenziosa della finanza islamica: affari per 1.500 miliardi

Il modello della finanza islamica «continuerà ad avere un ruolo modesto a causa delle piccole dimensioni del settore che deve ancora risolvere alcuni problemi per sbloccare la sua potenzialità globale». Così scriveva in un report del 18 aprile dell'anno scorso Standard&Poor's. Sul ruolo «modesto» l'agenzia di rating si sbagliava. Nel 2016 gli asset gestiti dalla finanza islamica sono infatti saliti al 2% del totale, per un valore superiore a 1.500 miliardi di dollari rispetto ai circa 100 miliardi di fine anni Novanta.

Quanto ai problemi di questo modello, però, il monito di S&P's era corretto. Perché questa crescita impone una maggiore attenzione da parte delle autorità di regolazione e la definizione di norme in grado di garantire la stabilità finanziaria nei paesi dove è più presente. L'indicazione arriva dal Fondo Monetario Internazionale che ricorda come persistano «buchi» regolatori da colmare: mancano ad esempio normative per gestire casi di risoluzione delle banche. Istituzioni di finanza islamica, sottolinea l'Fmi, sono ormai presenti in una sessantina di paesi, con una espansione continua anche in Africa, Asia Centrale ed Europa. In 14 paesi, dalla Malaysia all'Arabia Saudita, questo tipo di finanza è diventata di importanza sistemica, avendo superato il 15% del settore.

Il Fondo ribadisce, per questo, la necessità di monitorare i nuovi prodotti sviluppati per «replicare» la finanza convenzionale nel contesto della finanza islamica, prodotti che - conclude l'analisi - «hanno fatto emergere nuovi e complessi rischi che vanno gestiti dalle autorità di regolazione». Non è dunque solo una questione di pregiudizio nei confronti della finanza «coranica» che potrebbe essere vista con qualche sospetto, anche se - chi vi lavora - assicura che nulla ha da spartire con i finanziamenti che affluiscono nelle casse dell'Isis. Anzi, la prima regola è proprio quella di effettuare investimenti socialmente responsabili o leciti (halal) e non rischiosi o puramente speculativi. Insomma, niente armi, alcol, droga, armi, sfruttamento delle persone, ma neppure hedge fund, derivati o cose simili.

La finanza islamica intanto è pronta a fare business anche in Italia dove il risparmio dei musulmani, stando ai dati della Banca Centrale Europea, sfiora i 6 miliardi di dollari. Non a caso il 6 e il 7 marzo si svolgerà a Torino il Turin Islamic Economic Forum. L'obiettivo è dimostrare che la finanza «halal» è meno spregiudicata di quella convenzionale oltreché più redditizia. Basta che il «Gordon Gekko» di fede islamica rispetti i dettami del Corano e si ricordi sempre che il denaro non può generare denaro con il semplice trascorrere del tempo, perché il tempo appartiene soltanto a Dio. E chi lucra o specula sulle proprietà private divine commette un grave reato.

Le transazioni finanziarie devono essere sempre e solo legate a delle operazioni di economia reale. Tanto che è stato anche sviluppato un prodotto su misura, il sukuk, una sorta di obbligazione senza interessi che finanzia solo progetti eticamente sostenibili.

Nel 2014 la Consob, la Commissione che vigila sulla Borsa, scriveva che «la finanza islamica non è incompatibile con la disciplina italiana dei mercati in

quanto poggia su un insieme di regole oggettive che prescindono dalla connotazione etica o religiosa».

Nel Regno Unito, hanno già aperto venticinque banche a norma con i principi etici islamici. In Italia, nemmeno una. Per ora.

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