
È difficile sottrarsi all'impressione che il florilegio di lodi a Trump per il piano di pace che muove i suoi passi neonati siano dettati solo da ammirazione, o da approvazione pacifista verso il presidente americano. In genere si dice che il merito della pace è tutto suo, anzi, che vi ha costretto Netanyahu. Ma il PM israeliano è oggetto continuo di opposizione ideologica, di fissazione politica, di insulti, e l'occasione di proseguire nella negazione dei suoi meriti lodando Trump, è evidente. Pace e Netanyahu non sono due parole che possano andare insieme. In realtà certo, Trump si merita tutte le lodi; ma Netanyahu ne merita altrettante se non di più: mette in gioco il futuro del suo Paese, la propria immagine, la conclusione della biografia di uno statista che ha subito la terribile torsione del 7 di ottobre in una pace traumatica, che comprende la liberazione di terribili terroristi con migliaia di morti sulla coscienza, e il ritiro dell'esercito mentre ancora Hamas non ha consegnato le armi.
Ma tutto è graduale e soggetto al rispetto degli accordi, e il contraccambio è enorme: si sfila dalle mani di Hamas il suo principale bene, la detenzione di tutti gli ostaggi. E qui si registra un punto a favore della strada maestra che ha portato all'accordo, ovvero la pressione militare su Gaza City di cui tutti avevano paura; la forza di Netanyahu nel continuare a sostenere nonostante il parere di Witkoff che, incaricato da Trump, si accontentava di un accordo parziale, la necessità di portare a casa tutti i rapiti, vivi e morti, in una volta. Netanyahu ha seguito strade impossibili, impervie, sin dal tempo di Biden, quando la proibizione di andare a Rafah chiudeva la strada alla caccia a Sinwar, che poi è stata completata; quando il bando dallo Tzir Filadelphi ha invece, catturato, chiuso la strada a rifornimenti di uomini e armi dall'Egitto. Netanyahu è andato contro Biden, sfidando il taglio delle armi. Di fronte all'attacco degli Hezbollah, fronte sciita definitivo coi loro 200mila missili, barriera contro ogni attacco, Netaynahu entra in Libano, ordina la missione dei cercapersone, elimina Nasrallah; di fronte all'impresa iraniana, Netayahu è da solo, contro tutti, con una buia previsione di caos. Ma gli F15 e 16 vanno a Teheran, e solo la seconda volta Trump si unisce all'impresa. Più avanti l'attacco a Doha porta finalmente il Qatar a capire che Israele non sopporta più il suo falso ruolo di mediatore, e che sarà meglio che si decida a spingere Hamas. Trump ci mette del suo. Le scuse di Netanyahu sono un mezzo per cui la coalizione per premere Hamas si consolida.
E veniamo a Trump: lungi dall'aver costretto Netanyahu a piegarsi a un suo disegno di pace tipo Biden (cessate il fuoco, e restate con Hamas alle porte), il presidente si è posto a fianco degli interessi israeliani, capendo che sono i suoi. Minaccia Hamas di distruzione; si impegna per i rapiti; incita Israele alla pressione militare; aiuta, non recrimina, nella distribuzione degli aiuti umanitari. Dà, con Netanyahu, la botta fatale alle strutture iraniane che minacciano tutto il mondo; sta con Bibi quando chiede tutti gli ostaggi e rifiuta l'accordo parziale. Trump con la sua forza ha spinto il Qatar, la Turchia, l'Egitto e altri cinque stati musulmani a fiancheggiare l'accordo, ma è l'atteggiamento mediorentale di Israele che dice "con me non si scherza" che convince alla convenienza di una grande pace futura.
Da essa sono esclusi i Paesi e i gruppi terroristi legati all'Iran. E anche l'Europa, se non si sveglia. In vista del Nobel l'anno prossimo, forse Trump capirà che le ragioni di Zelensky sono anche le sue e del ruolo americano di pacificatore nel mondo.