Basta col gioco del cerino. Se chiudere si deve, lo faccia chi ha il potere di farlo e gli strumenti per controllare, ma per tutti.
La Regione Lombardia chiede al governo un'assunzione di responsabilità. Non vuole un nuovo lockdown, ma sulla base dei dati propone misure condivise e uniformi su tutto il territorio nazionale. Questa la linea che Palazzo Lombardia ha portato al vertice di ieri mattina col ministro degli Affari regionali Francesco Boccia, quello della Salute Roberto Speranza e gli altri enti locali. E la linea a quanto pare è condivisa anche dal sindaco di Milano: lo confermerebbe il silenzio-assenso dell'altro palazzo della politica ambrosiana, Palazzo Marino.
Brucia ancora, in Lombardia, il precedente di febbraio-marzo, quando il governo non ha saputo decidere per tempo. In quei giorni drammatici, dopo aver rivendicato in tutte le sedi e in tutti i modi (anche con atti ufficiali) il potere esclusivo di intervenire, Roma perse l'attimo per istituire la zona rossa nella Bergamasca. E poi esitò sulla stretta alle attività sociali, facendosi precedere sempre dalle norme apripista della Lombardia.
Anche adesso, decidere e controllare toccherebbe al governo. E ciò che la Lombardia chiede è una scelta: una misura uguale per tutti. Il governatore Attilio Fontana, ieri, ha spiegato che ciò che ha funzionato a marzo ha avuto carattere generale. E anche adesso servono «misure condivise e uniformi» per tutta Italia, più efficaci e più giustificate di quelle territoriali. Misure da concepire su più fronti. Per esempio una restrizione ulteriore di attività commerciali o sociali, o particolari tutele (non certo norme coercitive) per gli anziani e le categorie fragili, e ancora - eventualmente - un intervento sui medici di base, che li induca a fare tamponi e vaccini una volta superate le resistenze dovute a problemi logistici e di sicurezza.
Questo è il punto, per la Lombardia. Poi, se e quando i tecnici sentenzieranno che un lockdown è l'unica cosa da fare, allora che lo si faccia, ma la Lombardia oggi non chiede un lockdown. Chiede regole omogenee e non speciali.
Il fatto che oggi non siano giustificate misure speciali per la Lombardia, lo confermano anche i dati dell'Osservatorio metropolitano di Milano. Dati che evidenziano, semplicemente, come un «caso Lombardia» non esista più. Prendendo in esame il numero dei decessi infatti, emerge come i decessi in Lombardia siano tornati da mesi in linea col peso demografico della Regione più popolosa d'Italia, che conta il 16,6% degli abitanti dell'intero Paese. A febbraio - quando l'epidemia è esplosa fra Lodi, Bergamo e Cremona - furono lombardi il 79% dei morti (22 su 29). A marzo l'epidemia era ancora una vicenda eminentemente lombarda, col 58% dei decessi totali, e ancora da aprile a luglio l'incidenza lombarda era ancora intorno al 40% (il 39% a giugno, il 43 a luglio). Ad agosto però il dato è sceso al 17%, con 59 decessi su 342, a settembre si è attestato sul 22% e a ottobre è sceso al 21%.
«Il dato dei decessi di tutte le regioni è molto omogeneo rispetto alla loro popolazione - spiega il direttore dell'Osservatorio, l'ex presidente del Consiglio provinciale Bruno Dapei - la percentuale di vittime per regione è molto vicina al peso demografico delle stesse, non c'è più uno scostamento».
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