«Tra la Brexit e questo, siamo praticamente fottuti...» commenta una voce non identificata, ma evidentemente pro-Labour, durante l'annuncio in diretta sulla Bbc, poi costretta a scusarsi. Il microfono è aperto mentre sette deputati annunciano l'addio al Partito laburista e contestano apertamente il leader Jeremy Corbyn, la sua linea «di estrema sinistra», la sua posizione sulla Brexit e «l'antisemitismo istituzionale» che ormai permea il partito. Potrebbe essere solo una scossa di assestamento, come negli anni Ottanta, quando un gruppo di dissidenti laburisti diede vita al Social Democratic Party (1990), con scarsi risultati ma garantendo ai Tory 18 anni di potere. Oppure l'annuncio potrebbe dare il via a un terremoto, il peggiore degli ultimi 40 anni nella politica britannica, probabile preludio di una scissione se altre defezioni, come sembra, seguiranno. Di certo i sette addii sono il segnale che la terra sta tremando sotto i piedi del Labour in un momento delicatissimo per le sorti del Paese, a 39 giorni dall'uscita dalla Ue senza che si sappia ancora se il divorzio sarà consensuale e alla vigilia del viaggio di Corbyn a Bruxelles giovedì, contestato dagli europeisti come l'ennesimo tentativo di favorire la Brexit. Il tutto mentre anche fra i Tory al governo si vocifera di scissioni (nonostante il vantaggio sul Labour nei sondaggi) e dopo che Nigel Farage ha annunciato la nascita del Brexit Party.
I fuoriusciti formeranno un nuovo gruppo parlamentare, separato, gli indipendenti. E invitano altri deputati, anche Tory, a unirsi. L'obiettivo è la formazione di un nuovo movimento di centro. «I partiti tradizionali non sono più all'altezza delle sfide - dice quel Chuka Umunna ribattezzato «l'Obama britannico» e che nel 2015 si ritirò dalla corsa per la leadership lasciando campo aperto all'inattesa vittoria di Corbyn - È ora di abbandonare la vecchia politica. Di dare al Paese una politica del 21esimo secolo, non del secolo scorso».
Le ragioni dell'addio sono una tegola sulla testa di Corbyn, che dal 2017 ha perso 14 deputati portando l'opposizione da 262 a 248 parlamentari. E sono un inno al centrismo alla Blair. «Sono stufo che il Labour sia un partito razzista e antisemita. E sono furibondo che la nostra leadership stia favorendo la Brexit» dice Mike Gapes, parlamentare dal '92, convinto europeista e fermo sostenitore di un secondo referendum, che invece Corbyn sta allontanando come può. «Una decisione molto difficile, dolorosa ma necessaria», spiega del suo addio Luciana Berger, ebrea, costretta a essere scortata dalla polizia all'ultimo Congresso laburista dopo le minacce ricevute e che non a caso parla di un partito diventato «istituzionalmente antisemita». Ma a ricordare a Corbyn la ragione per cui la sua leadership è divenuta insostenibile, di estrema sinistra, è Chris Leslie, ex ministro Ombra delle Finanze. Dietro alla sua decisione «l'ostilità alla Nato, la preferenza a credere a Paesi ostili al nostro (la Russia, ndr) invece che ai nostri 007. Tutto ciò affonda nell'ossessione per un'ideologia datata e ristretta».
Corbyn si dice deluso ma sottolinea: si tratta di «un piccolo gruppo» e il partito li sfida alle suppletive. «Sette nani», ironizza qualcuno. «Traditori», li ha già bollati qualche laburista.
Di certo i sette sono la prova che la strada per Downing Street è in salita per Corbyn e la Brexit è diventata ha smesso di dividere Westminster in destra e sinistra, maggioranza e opposizione. La spaccatura potrebbe mandare definitivamente in soffitta il secondo referendum, che Corbyn non ha mai voluto davvero e adesso apparirebbe una resa ai detrattori.
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