La Norvegia, tra i primi produttori mondiali di gas naturale e petrolio greggio e di gran lunga il principale dell'Europa occidentale, ha preso ieri una decisione storica e apparentemente paradossale: i giganteschi proventi dell'estrazione di idrocarburi non saranno più investiti nel settore del petrolio. Il governo di Oslo, dopo oltre un anno di dibattito, ha stabilito che il fondo sovrano nazionale (che è il più grande del mondo e gestisce nell'interesse della collettività un'enorme ricchezza che da pochi decenni a questa parte, proprio come accaduto in numerosi Stati del Medio Oriente, ha cambiato da cima a fondo l'economia e le stesse abitudini del Paese) disinvestirà tutte le sue partecipazioni nelle società quotate nel settore del petrolio e del gas. Stiamo parlando di cifre colossali: il valore complessivo dell'investitore supera i mille miliardi, mentre i soli investimenti azionari nel settore degli idrocarburi superavano alla fine del 2018 i 37 miliardi di dollari, portafoglio che è dunque destinato a essere liquidato.
La decisione del governo norvegese, precisano fonti ufficiali di Oslo, non è dettata da motivazioni ideologiche o da pressioni degli ecologisti (che pure nel Paese scandinavo hanno un peso rilevante e che avevano caldeggiato questa scelta), bensì da considerazioni di ordine finanziario: l'obiettivo è quello di ridurre l'esposizione agli alti e bassi del settore petrolifero, in altre parole abbassare la vulnerabilità dell'economia norvegese al rischio di un calo permanente del prezzo del petrolio. Per questo saranno cedute le quote investite nelle società di esplorazione e produzione di idrocarburi. Nonostante i chiarimenti, il messaggio ricevuto è stato comunque quello di un colpo ai combustibili fossili, le Borse di tutto il mondo hanno reagito negativamente e si è assistito a una caduta generalizzata dei titoli energetici.
Quello che la Norvegia ha voluto evitare con questa mossa è di trovarsi esposta due volte ai rischi del mercato degli idrocarburi. Le fortune (è comunque il caso di sottolinearlo, se si considera che prima della scoperta a partire dal 1971 degli enormi giacimenti sottomarini nel settore norvegese del Mare del Nord la bilancia commerciale era in negativo e l'export principale era costituito da metalli, carbone e merluzzo) del Paese sono già fortemente legate all'estrazione di petrolio e di gas, che rappresentano oltre la metà delle vendite di beni all'estero. Investire fortemente nello stesso settore significava legarsi mani e piedi a oscillazioni che possono essere imprevedibili, mentre la logica di un fondo sovrano è opposta: minimizzare i rischi allo scopo di garantire le generazioni future.
Attualmente il fondo sovrano norvegese, che acquista all'estero azioni, obbligazioni e immobili, è un importante investitore in società petrolifere, con ben 341 partecipazioni azionarie in aziende quotate del settore: alla fine del 2018 possedeva il 2,45% di Shell, il 2,31% di BP, il 2,02% di Total, lo 0,99% di Chevron e lo 0,94% di ExxonMobil. Possono sembrare quote modeste, ma si parla di colossi, per cui ad esempio il valore dell'investimento su Shell sfiora i 6 miliardi di dollari, mentre quello effettuato in Chevron vale 2 miliardi. Il fondo sovrano norvegese è molto attivo anche in Italia.
E' il terzo investitore estero sulla Borsa di Milano, con circa 9 miliardi di partecipazioni in società quotate del nostro Paese. In particolare, possiede una quota dell'1,59% di Eni, che vale 810 milioni di euro: ma al momento non risulta che verrà dismessa.
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