Cronache

L'osservatrice di Onu e Ue che è felice solo nel Sahara

Maria Serena Alborghetti ha attraversato il deserto 25 volte ed è rimasta per dieci giorni in balia dei tuareg Dopo missioni di pace in una trentina di Paesi, dice: "L'Isis va eliminato e basta"

Maria Serena Alborghetti nel Sahara
Maria Serena Alborghetti nel Sahara

Del Sahara, che conobbe per la prima volta trent'anni fa, dice: «Mi manca tantissimo». Le mancano le tempeste di sabbia. Le mancano i venti, il ghibli, il khamsin e l'harmattan. Le mancano le tribù, i tuareg e i dogon. Le mancano le palme dum e i dromedari dal pelo bianco, i mehari. Le mancano persino i 55 gradi all'ombra che misurò di giorno nel giugno 1988 («le mie caviglie erano diventate due zampogne») e i 39 di refrigerio alle 4 del mattino, ma anche i 3 sottozero in una notte del 2009 («nella tenda si ghiacciò l'acqua»), avendo fatto sua la filosofia di Mussa Ag Amastane, poeta tuareg: «O uomo, che importa che tu abbia caldo o freddo? È la legge del deserto aver caldo di giorno e freddo di notte. Ma non hai che da volgere la tua fronte al cielo per ricevere il sole e poi le stelle. E sarai contento».

È dal 2007 che Maria Serena Alborghetti non torna nel Sahara: «Il governo algerino non vuole rogne, per cui non concede più il visto per attraversarlo. E comunque mi pare assurdo rischiare di farsi rapire dai fondamentalisti islamici, mettendo nei guai anche il mio Paese». Non sarebbe la prima volta che accade: nell'agosto 1992 fu data per dispersa in Mali con due amici. Angoscia. Foto nei tiggì e sui giornali. Si pensò a un sequestro di persona. Invece i predoni s'erano limitati a rubarle l'auto. Vennero ritrovati dalla polizia - passeggeri appiedati e vettura - dopo 10 giorni.

La crisi d'astinenza è stata così violenta, ma anche feconda, da ricavarci un romanzo, Sulle piste d'Africa (Il Poligrafo) , che si legge come un diario di viaggio, giacché tutti i riferimenti sono veri. Curioso: anche per i tuareg si chiama piste quella flebile traccia che conviene seguire, senza allontanarsi di un passo, per evitare di essere inghiottiti dalla più vasta zona arida del pianeta, un oceano di nulla che si estende lungo il tropico del Cancro per i 900 milioni di ettari misurati dai satelliti (30 volte la superficie dell'Italia) e i 5.500 chilometri che separano l'Atlantico dal mar Rosso.

Maria Serena Alborghetti ha attraversato il Sahara da sola o in gruppo, dall'Algeria al Niger, almeno 25 volte: «Ormai ho perso il conto». Spesso al volante di vecchie Peugeot e Toyota. Oppure a dorso di cammello: «Servono due settimane, non puoi fargli fare più di 50 chilometri al giorno». E ha vissuto nel deserto per lunghi periodi: «Ci rimanevo nove mesi l'anno. Vorrei costruirmi una casa per la vecchiaia a Tamanrasset. Mi piacerebbe morire lì».

Cercava il brivido dell'avventura? Non credo. Tutta la sua vita è stata, ed è, un brivido e un'avventura. Non tanto perché la prima volta che arrivò al limite del Sahara tunisino, nel gennaio 1984, a Gafsa vigeva il coprifuoco per la rivolta del pane, scoppiata a causa dell'aumento dei prezzi della farina, e dovette passare la notte asserragliata in albergo, mentre gli scontri tra manifestanti e forze dell'ordine lasciavano nelle strade due morti e decine di feriti; quanto perché la viaggiatrice-scrittrice, nata nel 1945 a San Daniele del Friuli, laureata in pedagogia con indirizzo psicologico e tesi di antropologia, due figli («uno vive alle Canarie»), ha scelto una professione piuttosto pericolosa, quella di osservatrice per conto dell'Onu, della Ue, dell'Osce e di altri organismi internazionali (dall'Iri, l'International republican institute che fa capo al Partito repubblicano americano, all'Iom, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni). Ed è impegnata due o tre volte l'anno, da un minimo di 45 giorni fino a 90, in missioni per il cessate il fuoco, il rispetto delle tregue, la tutela dei diritti umani, il controllo delle elezioni. Dal 1997 è stata in una trentina di Paesi: tre volte in Bosnia, tre volte in Nigeria, tre volte in Mali, tre volte in Costa d'Avorio, e poi in Zimbabwe, Repubblica Centrafricana, Sierra Leone, Madagascar, Kenya, Ghana, Malawi, Togo, Burundi, Tunisia, Indonesia, Ecuador, Bulgaria. Nel 2005 ha monitorato in Iran le operazioni di voto dei rifugiati iracheni che dovevano eleggere il nuovo Parlamento di Baghdad. Per un anno e mezzo ha lavorato in Congo con l'Unpdp, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo. Tra 2011 e 2012 ha operato in Egitto con la Fondazione Jimmy Carter («l'ex presidente degli Stati Uniti venne a trovarci, era il mio compleanno, ricordo ancora la foto dell'incontro stampata sulla torta»). Nel 2012 ha seguito le elezioni politiche in Algeria.

Gli Alborghetti sono quasi apolidi. «Mio padre, nato nel 1913 a Zara, finì a Vienna quando ancora regnava l'imperatore Francesco Giuseppe. Caduti gli Asburgo, fu riportato in Dalmazia, dove visse fino al 1926, e poi la famiglia si trasferì in Friuli. Si chiamava Mario. Era magistrato, come mio nonno. Morì nel 1998». Le cronache lo ricordano giudice a latere nel celebre processo scaturito dal ritrovamento del cadavere di Wilma Montesi sulla spiaggia di Torvaianica nel 1953 e presidente della Corte d'assise di Belluno che irrogò tre ergastoli per i delitti di Alleghe nel 1960. «Gli raccontavo dei miei viaggi e lui mi spronava: “Queste cose devi scriverle”».

Ha seguito il suggerimento di papà.

«Era affascinato dalla figlia matta che girava il mondo con la sorella Annamaria, oggi avvocata a Padova. A un certo punto, per seguire il mio compagno che lavorava nell'amministrazione della Cimi Montubi, andai a vivere per quattro anni a Médéa, in Algeria, dove l'azienda dell'Iri stava costruendo una fabbrica di antibiotici. Insegnavo ai figli dei 200 italiani che lavoravano nel cantiere».

La prima missione internazionale?

«Nel 1997 con l'Osce, in seguito agli Accordi di Dayton che posero fine alla guerra nell'ex Jugoslavia. Ero supervisor del censimento per stabilire chi avesse diritto di voto in Bosnia Erzegovina».

Come fa una gentile signora paracadutata dall'Italia a verificare la regolarità di un'elezione?

«Appostandosi fuori dai seggi e tenendo gli occhi bene aperti durante lo spoglio. Le faccio l'esempio delle elezioni in Mali nel 2013. Lì il broglio consisteva nel bulletin tournant, la scheda elettorale che gira: a chi sta per recarsi a votare, i frodatori consegnano un facsimile che, una volta deposto nell'urna, sarà invalidato e, in cambio di soldi, si fanno portare fuori dal seggio una scheda vergine da attribuire al candidato desiderato».

Un lavoro rischioso.

«Su una scala da 1 a 10, il rischio di solito si situa fra 5 e 6. In Congo sono arrivata a 9. Chiusa in casa mentre fuori sparavano da tutte le parti. Basta non pensarci. Le misure di sicurezza mi opprimono. Idem girare sui mezzi blindati. “Attenta, sei nella zona rossa!”, mi urlano via radio. Ah sì, e qual è la zona rossa?».

È lei la protagonista di Sulle piste d'Africa?

«La protagonista non ha nome. Ci sono un lui e una lei, scritti in corsivo. Una giovane coppia innamorata del deserto. Lui va in crisi con il lavoro e parte da solo per il Sahara. Dopo un mese non dà più notizie. Lei parte per cercarlo lungo il percorso dei pegiottari, che è poi sempre stato anche il mio: imbarco con l'auto a Trapani, sbarco in Tunisia, traversata del deserto algerino fino a Tamanrasset e poi altri 650 chilometri fino alle miniere di uranio di Arlit, in Niger».

I pegiottari sarebbero i trafficanti di Peugeot?

«Esatto, l'auto più ricercata nei Paesi sahariani. Con una 504 attraversi il deserto senza mai insabbiarti. Anche il pulmino Volkswagen non è male: nel 1986 sono andata da Algeri a Lomé, capitale del Togo, 4.500 chilometri attraverso quattro Stati. Nessun guasto. Alla sera pulivo il filtro dell'olio dalla sabbia: sembrava polenta».

Usa il navigatore satellitare?

«Carta, bussola, altimetro, posizione del sole e delle stelle. Il Gps non so che cosa sia. Fino agli anni Ottanta era come attraversare in solitaria l'Atlantico. Oggi nel Sahara, soprattutto d'inverno, trovi di tutto: gente a piedi, in motorino, sulle Citroën 2 cavalli e sulle Renault 4. Una volta ho persino incontrato un inglese che sospingeva una carriola da muratore con dentro vettovaglie, indumenti e tenda».

È facile perdersi?

«Ho conosciuto una francese déboussolé, molto confusa. Insegnava a In Salah, nel sud dell'Algeria. Aveva invitato laggiù i genitori e la sorellina per fargli vedere il Sahara. Credeva di conoscere bene la pista per Tamanrasset. Morirono tutti tranne lei. In Niger mi hanno raccontato che la moglie del prefetto di Agadez partì con i quattro figlioletti e la governante per visitare le saline di Bilma, in linea d'aria 550 chilometri. L'auto finì in panne. La guida morì mentre a piedi andava in cerca di aiuto. Lei scrisse un diario straziante, in cui racconta degli aerei che le passavano sulla testa senza che i soccorritori vedessero i dispersi e descrive la terribile fine dei suoi quattro bambini, uccisi dalla sete. Perirono anche la mamma e la nurse».

Ciononostante lei ama il Sahara.

«Sì. È uno spazio familiare e dilatato, come tutta l'Africa, in una temporalità dai margini incerti, dov'è facile perdersi ma al tempo stesso ritrovarsi. Ho bisogno di questo spazio, ho bisogno di vedere sempre l'orizzonte. Non per nulla in Italia ho scelto di abitare di fronte al mare aperto, al Lido di Venezia».

Ma che cos'ha di speciale un orizzonte di sabbia?

«Non so. È un'emozione. Non si può spiegare. All'inizio dà angoscia a tutti, tranne che ai marinai. Io sognavo il deserto già a 8 anni senz'averlo mai visto. Osservavo quella fascia gialla sul mappamondo e andavo in trance».

Per la sete come fa?

«Cerco le guelta, pozze d'acqua piovana che possono durare parecchi mesi. Oppure osservo la base umida delle rocce sul fondo degli oued, i torrenti in secca. Basta scavare lì vicino e l'acqua esce, già filtrata dalla sabbia e quindi potabile».

Ma non ci sono i predoni nel Sahara?

«Sì, infatti nel 1992 il mio convoglio fu assalito. Ma ebbi l'accortezza di radunare tutte le donne sulla mia vettura. I tuareg hanno molto rispetto per la figura femminile, non ci avrebbero mai lasciate a piedi nel deserto».

Roberto Hamza Piccardo, cofondatore dell'Ucoii, l'Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia, mi ha confidato che si convertì all'islam dopo aver visto una luce speciale negli occhi dei tuareg: «Quando avevano finito di pregare Allah, la loro faccia era luminosa».

«Io questa luce non l'ho vista. Ma devo dire che la loro è una religiosità semplice, tranquilla. Per cui non riesco a capacitarmi di come una parte dei musulmani sia diventata fondamentalista».

Lei però non si è convertita.

«No, ma ho subìto il fascino del loro misticismo. Mi ha fatto ripensare alla mia fede di cattolica che smise di andare in chiesa quando cominciò ad assumere la pillola anticoncezionale».

Ha creduto nelle primavere arabe?

«Ho smesso di crederci quando ho visto precipitare la Libia nel caos».

Uccidendo quel satrapo del colonnello Gheddafi per fare un favore a Nicolas Sarkozy, l'abbiamo consegnata ai tagliagole dell'Isis.

«Per intervenire negli affari interni di un Paese arabo, bisogna conoscerlo bene. Non basta deporre i dittatori: serve la ragionevole certezza di poter instaurare una sorta di protettorato per un lungo periodo. In Libia non c'erano né miseria né arretratezza e Gheddafi riusciva a tenere uniti sotto un'unica bandiera una cinquantina di clan. Adesso ci ritroviamo con 50 rais. Era meglio astenersi e lasciare che s'arrangiassero fra di loro».

Esistono i musulmani moderati?

«Sì, altrimenti in Algeria i fondamentalisti non avrebbero ammazzato 200.000 loro correligionari. Però chi sono, fra i musulmani, i moderati? Dal di fuori, è difficile stabilirlo. Anche questi dell'Isis, lei ha capito da dove sono saltati fuori? Come si finanziano?».

Vendono il petrolio dei pozzi di cui s'impossessano, pare. Tre milioni di dollari al giorno.

«E chi lo compra? Chi lo ricicla? Ci sono cose che noi non sapremo mai».

Lei pensa che la democrazia sia esportabile nei Paesi islamici?

«Solo adattandola alle culture locali. La Tunisia si attiene al Corano, però ha abolito la poligamia. In Algeria non tagliano le mani ai ladri».

Se lei fosse un premier occidentale, come regolerebbe i conti con l'Isis?

«Ricorrerei alla forza militare. Questi terroristi non hanno limiti, vogliono imporre il califfato nel mondo intero. Punto. Che tratti a fare? Sono sempre stata contro le guerre. Ma ho esultato quando nel 2013 la Francia è intervenuta in Mali su mandato dell'Onu per ristabilire il legittimo governo rovesciato dagli islamisti. Con questa gente non puoi discutere. Che deterrente vuole che funzioni con chi è pronto a farsi saltare in aria pur di ammazzarti? Lo devi solo eliminare».

(747. Continua)

stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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