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L'ostaggio fa propaganda. Così l'Isis diventa regime

In un nuovo video il giornalista inglese John Cantlie viene mostrato mentre gira rilassato per le strade di Mosul e fa commenti elogiativi

John Cantlie, reporter ostaggio dell'Isis
John Cantlie, reporter ostaggio dell'Isis

Anno nuovo, video nuovo. Sbarbato, vestito «da reporter occidentale», meno segnato in volto e smunto. John Cantlie, il giornalista inglese rapito in Siria nell'ormai lontano 2012 e finito in mano allo «Stato Islamico» (noto anche come Isis), è ricomparso in un filmato di propaganda girato a Mosul, la seconda città dell'Iraq conquistata dall'Isis lo scorso giugno.

Cantlie, 43 anni, era stato suo malgrado già protagonista di sei video targati Isis, fatti circolare sui siti jihadisti sotto il titolo piuttosto sinistro «Lend me your ears» («Prestatemi ascolto», ma letteralmente «prestatemi le orecchie», che fa un po' rabbrividire pensando all'intera testa brutalmente tagliata di altri ostaggi come James Foley): solo che questa volta gli hanno fatto cambiare abbigliamento. Non più l'inquietante tuta arancione, imitazione di quelle dei prigionieri di Guantanamo, che solitamente preludeva a una crudele esecuzione davanti a una telecamera: stavolta Cantlie indossa un giubbino scuro di taglio occidentale e - soprattutto - viene mostrato mentre si muove «liberamente» per le strade di Mosul.

Quanto liberi siano i suoi movimenti e le sue parole ciascuno potrà giudicarlo da sé - ricordando tra l'altro che sulla testa di Cantlie pende una condanna a morte emessa da un «tribunale» dell'Isis. Il giornalista inglese viene ripreso per otto minuti e 15 secondi mentre guida prima una macchina e poi una motocicletta della polizia (sempre in compagnia di un sorridente ma ben armato guardiano) e visita un mercato e un ospedale facendo commenti elogiativi.

Scopo evidente dell'intero video è un'abile propaganda per la causa dell'Isis, per la prima volta però «in positivo», confermando l'intenzione di costruire anche così un regime. Cantlie appare sempre rilassato e spesso sorridente, e si muove e parla con atteggiamento professionale. Altrettanto professionale è la qualità delle riprese, e l'insieme del «prodotto giornalistico» invia un messaggio attentamente studiato a tavolino: a differenza di quanto si sostiene sui media occidentali (in questo video Cantlie cita, per smentirlo, un servizio del quotidiano britannico Guardian in cui si afferma che la città è affamata e immersa nella spazzatura) a Mosul tutto va bene, e non è vero che vi regni un clima di terrore.

Cantlie non casualmente mostra un'auto della polizia locale (ovviamente dell'Isis), alla cui guida c'è un tranquillo e sorridente signore, e assicura che «adesso ha ben poco da fare, perché chi vive qui può camminare sereno per le strade e non deve più temere la repressione sciita» (la confessione musulmana che è maggioranza in Iraq, accusata di violenze contro la minoranza sunnita). Anche durante la visita «al principale ospedale di Mosul» non una parola confligge con il messaggio di propaganda mentre Cantlie mostra immagini di «bambini ricoverati vittime dei bombardamenti occidentali».

Nell'insieme, il video lascia una sensazione inquietante. Si fatica a comprendere dove passi il confine tra una classica sindrome di Stoccolma e una «conversione» legata al terrore di fare una tragica fine. E si prova una gran pena per quell'uomo, qualunque sia il motivo per cui fa quel che fa.

Forse l'unico momento in cui è sincero è quando fa dello spirito vedendo sfrecciare aerei della coalizione occidentale che combatte contro l'Isis: «Qui! Sono qui! - grida verso il cielo - Non servite a nulla, siete inutili!».

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