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L'Ue? Si preoccupa di Greta. E lei la deride

Il progetto di legge: emissioni zero entro il 2050. "Non basta, è una resa"

L'Ue? Si preoccupa di Greta. E lei la deride

La diciassettenne Greta Thunberg pronta a strepitare proprio mentre, ieri, la Commissione Europea le presentava il progetto di legge per raggiungere le emissioni zero entro il 2050 non è più né una giovane pasionaria, né una Cassandra in erba. Ormai è solo un piccolo pugile suonato prigioniero dei soliti refrain e incapace di realizzare la situazione in cui vive. Ma statene certi è in buona compagnia.

La Commissione Europea - riunitasi per varare di tutta fretta la bozza sul clima mentre ancora si attende uno straccio di provvedimento per affrontare due sfide esistenziali come l'epidemia di Coronavirus e lo tsunami migranti - non è certo un ritrovo per sani di mente. E ancor meno lo è un Parlamento Europeo disposto a regalare uno scranno ad una ragazzina isterica pronta a vomitargli addosso una sequela di consuete accuse. «Se la casa brucia urlava ieri la ragazzina svedese accolta come una profeta dagli eurodeputati - non si aspetta qualche anno per spegnere l'incendio. Eppure è questo che ci propone oggi la Commissione europea, questo testo è una resa».

Per comprendere la scomposta irritazione di Greta e l'indecente pagliacciata andata in scena ieri in Europarlamento incapace di sintonizzarsi sulle vere urgenze europee, bisogna partire dalla proposta di legge sul clima. La bozza, destinata ad esser votata sia dal Parlamento sia dai paesi membri, non prevede - come pretendono Greta e gli ambientalisti più decisi - l'obbiettivo di incrementare la riduzione delle emissioni Ue portandole dal 40% al 50-55% entro il 2030. Ma impone comunque di valutare entro settembre l'impatto di un simile innalzamento e la presentazione di un piano per realizzarlo. Seppur con questi limiti la legge sulle emissioni zero non è un azzardo da poco. Anche perché minaccia di mettere fuori gioco interi settori produttivi basati su sistemi energetici incompatibili con la crociata ambientalista.

E, come se non bastasse, impone la distribuzione di generosi incentivi alle aziende e agli stati pronti a sperimentare i nuovi modelli produttivi. Tutto legittimo, tutto accettabile, ma in tempi normali. Un po' meno sull'onda di una crisi da Coronavirus descritta dall' Ocse come «il più grande pericolo dopo la crisi finanziaria del 2007». In questo delicato frangente tagliare interi settori ed emarginare le economie dell'est Europa legate al carbone per puntare su un'industria verde di cui non è chiara la reale competitività appare più un azzardo che una sfida.

Soprattutto mentre Usa e Cina si guardano bene dall'abbandonare i vecchi schemi produttivi. Ma Greta non sembra capirlo. «Vi arrendete invece di fare quanto possibile per il futuro dei vostri figli () quel testo - strepita la piccola pasionaria - è insufficiente manca la consapevolezza, la giusta leadership e il tempo. Questo piano ignora i dati scientifici, il suo contenuto è una resa». Ma per capire la sceneggiata di Greta bisogna guardare dietro il suo volto ingrugnito. Dietro le sue iniziative e le sue comparsate lavorano, fin dall'esordio, gli alacri pupari di una nuova finanza verde il cui obbiettivo è spostare investimenti dai vecchi settori produttivi a quelli ancora vergini della produzione ad emissioni zero.

A cominciare da Mark Carney, il brillante governatore della Banca d'Inghilterra pronto ad assumere a breve l'incarico di «Inviato delle Nazioni Unite per l'azione climatica e la finanza». Un titolo in cui la correlazione tra «finanza» e «azione climatica» ben spiega la direzione in cui va il mondo. Carney, che per primo nel settembre 2015 sollevò il problema del mutamento climatico in ambito finanziario, è il fondatore del «Network for Greening and Financial System» una rete di trenta tra banche centrali e autorità di regolamentazione con assetti per oltre100mila miliardi di dollari.

Una dimensione colossale, quaranta volte superiore al debito pubblico italiano, che punta ad indirizzare e guidare i nuovi processi di industrializzazione «verde» in campo europeo e globale.

Una dimensione di fronte alla quale i problemi dei cittadini europei minacciati dalla crisi dei migranti e del Coronavirus diventano assolutamente irrilevanti.

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