C'è una casta che sopravvive alle altre, perfino a quella dei parlamentari. La tanto declamata decurtazione dei vitalizi di deputati e senatori non colpirà, infatti, la folta schiera dei dipendenti delle Camere. Si tratta di circa duemila persone, vincitrici di regolare concorso, che mettendo in piede in Parlamento hanno fatto bingo. Da una parte gli emolumenti sono di tutto rispetto con scatti di anzianità che procedono a velocità supersonica rispetto a quelli dei comuni mortali. Dall'altra parte, essi diventano titolari di trattamenti pensionistici pantagruelici in virtù degli stipendi maturati. E meno male che dal 2011, con l'entrata in vigore della riforma Fornero, anche il loro sistema previdenziale diventò pro-rata e non totalmente retributivo.
Volete un esempio di come lavorare con Piero Grasso e Laura Boldrini come capo azienda sia una pacchia? Basta guardare il bilancio consuntivo 2016 dell'Inps. L'istituto guidato da Tito Boeri l'anno scorso ha incassato 219,2 miliardi di contributi previdenziali da lavoratori e aziende e ha erogato trattamenti pensionistici per oltre 275 miliardi. Il rapporto tra quanto erogato e quanto incamerato è di 1,25 e dà una misura dello squilibrio progressivo del nostro sistema che le generazioni più giovani stanno pagando. Per ogni euro versato ne escono 1,25 per pagare le pensioni. Alla Camera, invece, a fronte di circa 55 milioni di introiti vengono versati ai dipendenti in quiescenza circa 260 milioni. Il rapporto è di 4,7 euro di pensioni per ogni euro di contributi. Al Senato si scende a 4 (145 milioni di pensione a fronte di circa 36 milioni di contributi).
Lo sbilancio previdenziale dei due rami del Parlamento (la dinamica del personale è praticamente simile a quella dei vitalizi) fa sì che tanto alla Camera quanto al Senato le spese per gli onorevoli e per i dipendenti, incluse le rispettive pensioni, «divori» l'80% delle entrate che, sommando Montecitorio e Palazzo Madama, ammontano a 1,5 miliardi di euro circa. A proposito, a pagare è ciascuno di noi. Per il Parlamento vale l'autodichia, cioè la completa autonomia normativa e gestionale (prerogativa costituzionale affinché la sovranità non sia limitata), dunque la gestione di stipendi e pensioni è tutta fatta in casa. Vi provvede il ministero dell'Economia con lo stanziamento di bilancio per il funzionamento degli organi costituzionali. Dunque, è con le nostre tasse che questo sistema si tiene in equilibrio. Anche perché il Palazzo per contenere le spese ha ridotto il numero dei dipendenti aumentando lo sbilancio previdenziale. Le Camere sono lo specchio perfetto del nostro Paese, purtroppo.
Ma perché la democrazia, tanto faticosamente conquistata dagli antenati, ci costa così tanto? Ripartiamo dalle famose progressioni di carriera dei dipendenti. Il tetto di 240mila, esteso dal governo Renzi a tutte le retribuzioni della pubblica amministrazione (escluse quotate ed emittenti titoli) è stato recepito quasi totalmente dalle Camere. Lo stop agli aumenti cesserà il prossimo 31 dicembre: dall'anno prossimo il blocco non varrà più.
In ogni caso, i lavoratori godono di minimi retributivi «fuori mercato». L'operatore tecnico e l'assistente parlamentare (il commesso), i due scalini più bassi della carriera della Camera, partono da un salario di ingresso rispettivamente di 30mila e 35mila euro annui lordi. Che dopo trent'anni di servizio diventano 99mila, con buona pace di tanti lavoratori che ogni due o tre anni a seconda del contratto, guadagnano 20 euro lordi in più al mese.
Il secondo agente lievitante delle retribuzioni sono le indennità che a Montecitorio sono pressoché forfettizzate ed erogate sostanzialmente attraverso una quattordicesima e una quindicesima mensilità (quest'ultima spalmata ad aprile e settembre). Chi lavora per Boldrini e Grasso, inoltre, può godere di una tolleranza (conservazione del posto) di 3 anni per malattia. Oltre a un'illicenziabilità di fatto. La «casta» è viva e lotta.
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