L'ultima pretesa europea: tassate meno gli immigrati

La Corte del Lussemburgo bacchetta il governo per la cifra chiesta agli stranieri per la domanda di soggiorno: da 80 a 200 euro. I giudici: vessazione inaccettabile

E due. Dopo la Corte di Strasburgo, anche quella di Lussemburgo: nel giro di ventiquattr'ore, dagli organi di giustizia europei piombano sull'Italia due decisioni che maltrattano le modalità con cui nel nostro paese viene gestita l'emergenza immigrazione. L'altro ieri a venire accolto dalla Corte per i diritti dell'uomo era stato il ricorso di tre tunisini rinchiusi nel centro accoglienza di Lampedusa, che si erano visti concedere un risarcimento di diecimila euro a testa (ne avevano chiesti settantamila) per essere stati privati della libertà senza un provvedimento del giudice e per le condizioni del centro. Ieri è invece la Corte di giustizia a dare torto al governo italiano sulla tassa che viene chiesta agli immigrati sulla domanda di soggiorno: da ottanta a duecento euro. Troppi, per i giudici europei.

Anche stavolta, a fare bacchettare l'Italia sono organismi italiani vicini alla sinistra. Il ricorso dei tre tunisini accolto da Strasburgo era stato steso dall'Arci, l'associazione ricreativa vicina al Pd. La decisione depositata ieri a Lussemburgo nasce da un ricorso della Cgil e dell'Inca, l'ente di patronato del sindacato di Susanna Camusso, presentato al Tar del Lazio e da questo trasmesso alla giustizia europea perché verificasse se la norma italiana violasse quelle comunitarie. La Cgil aveva chiamato in causa la presidenza del Consiglio e i ministeri dell'Interno e dell'Economia contestando il decreto del 6 ottobre 2011 che stabiliva il «contributo per il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno», fissando un costo oscillante a seconda della durata del permesso tra gli 80 e i 200 euro per l'accettazione della domanda. Secondo il ricorso, la tariffa era «iniqua e sproporzionata» e contrastava con una direttiva europea secondo cui le procedure per le richieste «non dovrebbero costituire un mezzo per ostacolare l'esercizio del diritto di soggiorno».

Già, ma come stabilire se la tariffa per una pratica amministrativa è ragionevole o sproporzionata? I giudici del Granducato hanno scelto di usare come metro di paragone le spese per il documento-base concesso ai cittadini italiani, ovvero la carta d'identità, che è di 10 euro. Pretendere che gli immigrati paghino una tariffa otto volte superiore è, dice la Corte, una vessazione inaccettabile. Invano il governo italiano ha cercato di giustificarsi davanti alla corte, presieduta da Rosario Silva de La Puerta, spiegano che tra i due documenti c'è una distanza che non li rende paragonabili, perché la carta di identità viene rilasciata in pochi istanti da un cervello elettronico mentre la pratica per il permesso di soggiorno deve passare per una istruttoria approfondita e onerosa; e altrettanto vana è stata la seconda giustificazione fornita dal governo di Roma, che ha spiegato come la metà del gettito proveniente dalla tassa venga destinato «a finanziare le spese connesse al rimpatrio verso i paesi di origine o di provenienza dei cittadini dei paesi terzi rintracciati in posizione irregolare sul territorio nazionale». Niente da fare.

Sulla scia di una decisione analoga già assunta contro il governo olandese, la Corte di giustizia costringe l'Italia, in base alla direttiva europea del 2003 sui permessi di soggiorno, a tagliare il costo della richiesta «in quanto siffatto contributo è sproporzionato rispetto alla finalità perseguita dalla direttiva ed è atto a creare un ostacolo all'esercizio dei diritti conferiti da quest'ultima». I giudici non si spingono fino a stabilire l'importo che l'Italia potrà chiedere agli immigrati: sarà ora il governo di Roma a dover varare le nuove tariffe.

di Luca Fazzo

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