Aveva già dato prova di sé con questa memorabile stupidaggine: «Milano non restituisce nulla al Paese». Ieri, Giuseppe Provenzano, ministro per il Sud, ci ha consegnato una nuova testimonianza di tutto il suo discutibile valore: «Dovremmo aiutare chi lavora in nero». In un'intervista rilasciata al Corriere della Sera, questo ministro di trentotto anni ha voluto interpretare tutto il lamento del Sud arretrato e parassitario, non quello legale e operoso, ma quello sommerso e fuorilegge che da economista non può non vedere, ma che addirittura si dice prontissimo a finanziare nella difficile epidemia: «Se la crisi si prolunga dobbiamo prendere misure universalistiche per raggiungere anche le fasce sociali più vulnerabili, le famiglie numerose, oltre a chi lavorava in nero». Parafrasando il pensiero economico di Provenzano (è stato vice direttore dello Svimez, l'associazione che più studia i guasti del Mezzogiorno), sembra di capire che le sue prossime mosse siano tutte indirizzate verso l'istituzione del reddito al parcheggiatore abusivo, il Gennaro Apicella, piccolo accattone del Pacco, doppio pacco e contro paccotto del regista Nanni Loy. Ma l'intervista è davvero spericolata dato che Provenzano riconosce quello che tutto gli italiani sanno e temono in queste ore: «Se l'epidemia fosse scoppiata al Sud sarebbe stata un'ecatombe. È il frutto del disinvestimento della sanità pubblica, di alcune degenerazioni regionali». Ha perfettamente ragione salvo dimenticare che le regioni che rimprovera sono a guida di centrosinistra, in pratica il suo partito. Uscito dall'anonimato grazie a una battaglia antirenziana, Provenzano ha confessato, in passato, di essere stato in procinto di lasciare il Pd nel 2017, dopo l'approvazione del Jobs Act che rimane una delle poche buone cose, e liberali, riconosciuta dagli imprenditori al governo Renzi. Lui no: «Ne contesto soprattutto il valore simbolico, la carica ideologica di una riforma concepita contro il sindacato». Eccessivamente preso dalla sua persona, Provenzano è l'ideologo dello Stato mamma che, in questi giorni sciagurati, pensatori in disarmo, sindacalisti e sindaci stanno sponsorizzando. E infatti, Provenzano, nella sua invettiva contro Milano, è riuscito a sostenere che il dovere di una città sia quello di dover restituire all'intero Paese. Non è nient'altro che una fantasia socialista da paese baltico: «La sua centralità, importanza, modernità e la sua capacità di essere protagonista delle relazioni e interconnessioni internazionali non restituisce quasi niente all'Italia» lamentava. Come si è detto, il ministro non è solo. Un caro pensiero al lavoratore in nero è arrivato, giorni fa, dalla sindaca di Roma, Virginia Raggi: «Sono vicina anche alle persone che stanno facendo un lavoro in nero e che improvvisamente si sono trovate senza lavoro». Tra i filosofi che invece credono che la pandemia non sarà altro che una palingenesi, una rinascita, c'è il sociologo Domenico De Masi, un tempo riferimento grillino, ma oggi solo grillino critico. A Radio Cusano Campus ha detto: «Spero che non si torni alla normalità di prima. È quella che ha creato il riscaldamento del pianeta, quella che ha creato questo virus e quella che ha reagito in questo modo al virus. Quella che viene chiamata normalità è la più totale anormalità».
Purtroppo ha perfino proseguito: «È un mondo basato su disuguaglianze, consumismo sfrenato, su cose ritenute indispensabili e che oggi si rivelano sempre più futili». Sono tutti buoni segni. La dabbenaggine anticipa sempre il ritorno alla normalità.
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