Speranza. Una parola che è una fiammella, che è un alito caldo. Finché c'è vita c'è speranza, dice un proverbio. Finché c'è speranza c'è vita, ribattono i genitori di Charlie Gard. E la speranza, la «chance», come titolava ieri il Daily Mail in prima pagina, è quella offerta da un nuovo farmaco messo a punto dagli scienziati americani del New York-Presbyterian Hospital e del Columbia University Medical Centre. Un nuovo fiammifero acceso a rischiarare il buio della morte imminente, il secondo a brillare incerto dopo il protocollo per cui si è speso il Bambino Gesù di Roma, l'ospedale pediatrico del Vaticano. È una parola così bella, speranza. Dolce come un'ambrosia. Ci ridà il sonno, ci scarabocchia in faccia una specie di sorriso, ci restituisce un pezzo di futuro, anche se spesso con una data di scadenza. Una parola tanto bella che però ci sembra sbagliato, perfino ingiusto, usare oggi per il povero piccolo Charlie, undici mesi, che giace nel suo lettino del Great Ormond Street Hospital di Londra, mentre i potenti del mondo disegnano una geopolitica dei sentimenti e dei valori sui suoi muscoli poco più forti di quelli di un bambolotto, inflacciditi e resi inetti da una malattia dal nome troppo complicato per non essere cattiva, cattivissima: la sindrome da deplezione del dna mitocondriale. Ha un nome astruso anche il protocollo che gli inglesi chiamano «italiano», basato sui deossinucleotidi esogeni applicati a cellule umane con mutazione RRM2B in coltura. Una cosa troppo complicata per non essere anche efficace, penserà qualcuno. Forse. Magari. Ma questo nuovo protocollo e il nuovo farmaco americano hanno entrambi un grande problema: non sono stati testati, non sono stati validati, neppure su «modelli murini», vale a dire topi da laboratorio. Né c'è tempo per farlo ora, Charlie ha le ore, i giorni contati. I medici del GOSH hanno già concesso un primo rinvio della condanna, prima o poi cercheranno di nuovo di staccare quella spina, quindi la scienza deve saltare qualche passaggio, anche se è nemica della fretta.
E allora via, proviamo. Che cos'ha da perdere il piccolo Charlie se non le sue catene, i tubi che lo tengono attaccato alla vita? Però guardiamoci negli occhi: Charlie sarebbe in questo caso una cavia, un topolino umano che donerebbe il suo piccolo corpo senza più forze per una causa enorme, per salvare i suoi futuri fratellini. Per lui, anche se uno tra il protocollo italiano e la medicina americana dovessero funzionare, non c'è niente da farem, la sua vita sarebbe un lungo inverno senza luce, perché la sua malattia ha graffiato il suo corpo oltre ogni immaginazione, e l'encefalopatia che lo ha colpito nei mesi scorsi ha lesionato irrimediabilmente il suo cervello, rendendolo in ogni caso incapace in futuro di compiere qualsiasi gesto, anche il più semplice. E questo non lo diciamo noi; lo dice quella stessa scienza che oggi sembra disposta a trasgredire alla sua solenne liturgia pur di fare una partita a cui Charlie non si sa se avrebbe voglia di fare da tavolo da gioco. Con la vita (e con la morte) non si scherza. Ma non si scherza nemmeno con la speranza.
Charlie vive e lotta con noi e per noi, ma probabilmente non per sé, con buona pace degli indomiti genitori e del mondo che fa il tifo per lui. Salviamo il topolino Charlie dall'oltraggio della falsa speranza. Almeno questo se lo merita.
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