Conta i passi e le ore che mancano all'impiccagione e questo significa che è ancora vivo. Mohammad Javad Vafaei Sani non si è mai pentito di aver urlato in faccia agli ayatollah il suo desiderio di libertà. Il prezzo che sta per pagare è totale: non si torna in genere dalla morte. Tutto comincia nel 2019, dentro un palestra, dove Sani, campione iraniano di pugilato, insegna ai ragazzi a sfidarsi su un ring. Sani è vicino ai Mojahedin del Popolo, un gruppo di opposizione laico che continua a battersi per i diritti inalienabili dell'umanità. La voglia di ribellione si respira ovunque e l'occasione arriva quando il governo aumenta il prezzo del carburante del 200 per cento. In Iran sembra un paradosso. Si scende in piazza e qui è un peccato mortale. La protesta si accende in più di cento città. La repressione è tremenda. Si parla di quasi tremila vittime. A Mahshahr, le Guardie Rivoluzionarie circondarono i manifestanti in una palude e li fucilarono con mitragliatrici, uccidendone una ottantina. I morti furono portati via su carovane di camion. Javad viene arrestato un anno dopo e per due mesi torturato a sangue senza poter vedere neppure uno straccio di avvocato. È abbastanza famoso da essere un simbolo e meritare una lezione. Due volte viene condannato e due volte il tribunale supremo cancella il verdetto. Il regime vuole la sua sottomissione pubblica. Sani non si arrende. Non può rinnegare nulla perché non sa neppure di cosa lo accusano. La condanna è un non senso. La pena di morte è per un reato che solo nei luoghi dove regna il terrore si riesce a concepire: corruzione sulla terra. Il 15 dicembre è piombato il verdetto finale. Morte senza appello.
È arrivato il permesso di incontrare la madre. È il segno della fine. Se qualcuno vuole sapere cosa sia davvero un regime guardi nella prigione di Vakilabad. Qui, nel silenzio del mondo che protesta, un pugile sta per morire.