Coronavirus

L'ultimo sms di don Basile e il medico che voleva i test

Il dottor Valle disse: "Scandalo i tamponi ai calciatori e non ai sanitari". Morto anche il coach dei pompieri

L'ultimo sms di don Basile e il medico che voleva i test

L'ultimo messaggio è stato per il padre gravemente malato: «Papà, ti voglio bene. Qui la città è lazzaretto». La «città» non è «una» metropoli come tante altre, ma «la» metropoli per antonomasia: New York. La Grande Mela nella quale il verme del contagio sta scavando un buco per farla marcire. Il dramma si stava consumando sotto i suoi occhi e che ha finito per fagocitare anche lui.

«Lui» è - era - don Gioacchino Basile, 60 anni, professione: prete. Cinque lettere che per questo sacerdote originario di Reggio Calabria racchiudevano l'essenza della propria missione. Che poi era un tutt'uno con la sua anima, il suo cuore, la sua fede, la sua comunione in Cristo.

Dopo aver preso i voti nel '95, iniziò il lungo viaggio da «portavoce di Cristo», come amava definirsi don Gioacchino; la Calabria gli stava stretta, sognava di volare alto, insieme alla parola di Dio.

E così il religioso del quartiere di Archi lasciò Reggio e decollò alla volta degli States, destinazione New York. Tutto bene fino a quando il demone del coronavirus non ha cominciato a infettare la City, dove improvvisamente, come per una maledizione, le luci si sono abbassate e le ombre si sono allungate. Il braccio di ferro tra la vita e la morte è iniziato, con il religioso italiano pronto a scendere in strada. Senza paura. Cosciente del suo ministero. Deciso a lottare per la vita, pur consapevole della forza della morte. «Qui ci sono cadaveri ovunque, sui marciapiedi. Io li benedico prima che vengano gettati nelle fossi comuni», la sua terribile testimonianza.

Don Gioacchino sapeva che impartire ai morti di coronavirus il sacramento dell'estrema unzione poteva significare, anche per lui, l'inizio della fine. Ma questo spettro non lo ha impaurito, anzi è stato uno sprone per continuare nella sua sublime opera di religioso.

Quando ha cominciato a tossire e ad avere la febbre alta, ha capito che le cose si stavano mettendo male. Nel giro di pochi giorni le sue condizioni si sono aggravate. Se n'è andato in solitudine. Senza il conforto di un bacio amico. Com'è lo spietato destino di ogni vittima di questo maledetto virus.

I medici del Winthrop University Hospital di New York lo hanno visto per l'ultima volta con una corona tra le mani e il sorriso di chi sa che il Signore lo attendeva a braccia aperte. Per regalargli una carezza eterna.

«SOLO A ME NIENTE TAMPONE»

Un post che fa rabbrividire: «Fanno il tampone a tutti, comprei i calciatori, ma ai medici no». Il professor Eduardo Valli, 62 anni, si era si era ammalato ai primi di marzo. Per giorni aveva atteso invano il tampone. «Mi dicono di stare a casa, boh...» Il ricovero a Tor Vergata e il trasferimento in terapia intensiva. Poi la morte. A Roma era noto come ginecologo, ricercatore e docente all'università di Tor Vergata: la sua attività era iniziata circa 35 anni fa, subito dopo la laurea e la specializzazione in Ginecologia e Ostetricia alla Sapienza. Ma anche lui - Edoardo Valli, 62 anni, dirigente medico per quasi due decenni al Fatebenefratelli dell'Isola Tiberina, «culla» per migliaia di bambini romani.

IL «MAESTRO» DEI POMPIERI

Giuseppe Coco, 50 anni, era per tutti semplicemente il «maestro». E il fatto che a chiamarlo così fossero dei vigili del fuoco pronti a ogni impresa temeraria, la dice lunga sulle capacità di Giuseppe. Lui, istruttore dei pompieri all'aeroporto di Capannelle, aveva perso il padre qualche giorno fa. A ucciderlo era stato il contagio. Identico destino per il «maestro» che ha lottato per tre settimane. La moglie e i due figli possono essere orgogliosi di un marito e un padre così.

IL FUMETTISTA ANARCHICO

Roberto Ambrosoli, 78 anni, era un fumettista di razza. Dalla sua matita era uscito un eroe fuori da ogni schema, come ben dimostrato da un nome contro tutto e tutti: Anarchik. Un personaggio autobiografico, stroncato da un'infezione priva di ironia. E soltanto crudele.

CAMPO-SCUOLA «DONATO SABIA»

Avrà il nome di Donato Sabia il campo-scuola di atletica leggera di Potenza, la città del campione olimpionico morto due giorni fa di coronavirus. Un omaggio, forse tardivo, per uno sportivo e un uomo di grande spessore etico e morale. Un esempio per i giovani.

E non solo.

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