È il Mercoledì delle Ceneri di Fidel Castro. Sul Malecòn sfila una jeep verde oliva con a bordo 5 militari in divisa verde oliva e guanti bianchi. La jeep trascina un carretto verde oliva il colore di tutta la vita del Comandante - sormontato da una teca di cristallo che protegge un forziere fasciato dalla bandiera nazionale. Dentro il forziere, un'urna. Dentro l'urna, le spoglie di Fidel Castro. La matrioska così concepita è circondata da rose e gerbere bianche. Perché bianche? Mah. Rose color verde oliva non se ne sono trovate, evidentemente. Comincia così, tra due ali di folla in gramaglie, il viaggio della «papamobile» castrista tra gli sgarrupati villaggi e le scalcagnate carreteres di 13 delle 15 province dell'isola. Direzione Santiago de Cuba, la «culla della rivoluzione», dove domenica il forziere verrà inumato nel cimitero di Santa Ifigenia. Quel giorno non ci sarà Barack Obama e neppure il suo vice Joe Biden. Dagli Usa non ci sarà neppure una delegazione presidenziale di alto livello ma solo l'ambasciatore americano a Cuba Jeffrey DeLaurentis e Ben Rhodes, vice consigliere per la Sicurezza nazionale.
Lungo il viaggio, il corteo funebre si fermerà in diversi villaggi fino ad arrivare a Santa Clara. Una sosta a suo modo romantica, pensata e voluta dal cerimoniale forse d'intesa con lo stesso «caro estinto». Santa Clara è infatti la città che ospita il mausoleo di Che Guevara. E a far costruire il monumento, nel 1997, fu proprio Fidel Castro. Nei quattro giorni di viaggio, perché la simbologia rivoluzionaria sia pienamente rispettata, la camionetta con rimorchio funebre farà il percorso inverso rispetto alla «carovana della libertà» cui diedero vita i «barbudos» di Fidel, tra il 1° e l'8 gennaio del 1959 dopo il trionfo della rivoluzione.
Alla cerimonia militare, oltre a Raùl Castro e alla vedova di Fidel, Dalia Soto del Valle, c'è tutta la nomenklatura castrista: coi vertici del governo e del partito comunista al completo. Presenti anche due degli innumerevoli figli del lider: Alex e Tony. Degli altri, una decina all'incirca, nessuna notizia.
«Cuba es Fidel», è il grido che i cubani lanciano durante la cerimonia di commiato dal Comandante nella Plaza de la Revolucion. C'è perfino una soldatessa che il nome «Fidel» se l'è fatto scrivere sulla guancia, e se passa un fotografo, eccola mettersi di profilo, per una indimenticabile «photo opportunity». «Fidel è il nostro leader storico della rivoluzione, colui che ha fatto sì che Cuba non fosse colonia di alcun impero» è il testamento che plana sulla folla dall'imponente palco allestito sotto il memoriale per Josè Martì. Raul Castro ringrazia i leader sudamericani presenti e rivolge un deferente saluto anche a quelli rimasti a casa «per la solidarietà e il rispetto mostrati da tutto il mondo», ricordando la figura del fratello «le cui parole risuonano ancora in questa piazza».
Oltre a Nicolas Maduro, presidente del Venezuela (paese ricchissimo ma in bancarotta, dove si fa a cazzotti nei supermercati per un rotolo di carta igienica) ecco un altro fallito di successo: il premier greco Alexis Tsipras. «Come Cuba anche la Grecia - dice Tsipras - si è alzata contro avversari potenti». E ricorda Fidel, definendolo «simbolo di luce e di indipendenza», accostando i valori di Cuba a quelli della «sua» Grecia, che respinge «la logica inumana del libero mercato e del neoliberismo». A precederlo sul palco, un altro «orfano» del lider maximo: Jacob Zuma, presidente del Sudafrica. Lui ricorda il Fidel che ha aiutato il continente africano «senza volere né petrolio né diamanti.
Un combattente convinto che i poveri dovessero vivere in dignità. Per questo la rivoluzione cubana continua a ispirare il mondo».Poi i motociclisti della scorta hanno messo in moto. E la jeep color verde oliva si è mossa. Un'altra pagina di Storia si chiude.
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