Roma Cinque Stelle, quattro movimenti, un accordo. All'Hotel Forum di Roma, con vista sui Fori Imperiali, tre delle anime del M5s hanno firmato la pace armata «per essere più competitivi» alle amministrative, come ha detto Luigi Di Maio uscendo dall'albergo, e, contestualmente, per implementare il numero delle votazioni sulla piattaforma Rousseau, come vorrebbe Davide Casaleggio.
Il perno della tregua, dopo quattro ore di confronto serrato, ruota tutto intorno a questo do ut des: il capo politico ottiene il via libera alla riorganizzazione del Movimento su un modello più simile a quello dei partiti tradizionali, il capo dell'azienda-madre punta a un rilancio della democrazia diretta, attraverso un sempre maggiore ricorso alle consultazioni online. Il terzo commensale, Beppe Grillo, descritto ormai da molto tempo come «abbastanza scocciato» dalle incombenze politiche, rinnova la sua fiducia nei confronti del vicepremier e smentisce gli attriti con l'erede di Pomigliano d'Arco: «Non c'è mai stato un bisticcio», ha dichiarato varcando la porta del suo storico quartier generale romano. Acqua sul fuoco delle polemiche conseguenti alla battuta del giorno prima su Di Maio che «ha solo 32 anni, ci vuole un po' di pazienza».
La caduta dell'ultimo idolo, ovvero l'eliminazione della regola dei due mandati almeno per i consiglieri comunali, la ha annunciata lo stesso capo politico alla fine del vertice: «Siamo tutti d'accordo che serve una riorganizzazione del Movimento - ha detto - a breve faremo una riflessione sia a livello nazionale sia territoriale. E una riflessione sui consiglieri comunali. Dobbiamo essere più competitivi a livello comunale e locale».
La dichiarazione nasconde l'idea di strutturare il M5s con una serie di coordinamenti territoriali e di non contare per il limite dei due mandati elettivi quelli fatti nelle amministrazioni comunali e, forse, regionali. Tutto, ovviamente, verrà votato dagli attivisti su Rousseau. Ed è qui che si sono placate le perplessità di Casaleggio, nume tutelare dell'utopia di un Movimento liquido governato dalla democrazia digitale.
Il pensiero critico del figlio del fondatore, secondo chi gli sta vicino, si può riassumere così: «Il M5s non può rinunciare alla partecipazione dal basso, non possiamo diventare una copia degli altri partiti, altrimenti perdiamo voti perché le persone scelgono l'originale». Osservazioni condite da un malcelato disprezzo verso la «deriva romana» dei parlamentari, che rischiano di farsi assorbire da certi riti dei palazzi del potere. Ma l'accordo sarebbe stato raggiunto, con la promessa di usare sempre di più la piattaforma Rousseau e spegnere le polemiche dei «portavoce» di Montecitorio e Palazzo Madama, stanchi di versare 300 euro al mese all'Associazione presieduta da Casaleggio.
E in prima linea nelle contestazioni ci sono gli esponenti del quarto troncone dei Cinque Stelle. Il manipolo, sempre più esteso, dei cosiddetti «dissidenti», tutti a vario titolo legati al presidente della Camera Roberto Fico. Chi di loro, al Senato, voterà a favore dell'autorizzazione a procedere per Matteo Salvini nonostante il verdetto di Rousseau, potrebbe finire davanti al collegio dei probiviri ed essere espulso. Sono gli stessi che premono, come ha scritto la senatrice Paola Nugnes, per un cambio al vertice dei grillini «perché Di Maio non può fare il capo politico, il vicepremier e il ministro».
Difficilmente saranno accontentati, anche se le procedure per la cacciata delle senatrici Nugnes ed Elena Fattori ancora languono.
La situazione, ascoltando i bene informati, potrebbe essere risolta affidando la sorte delle «ribelli» al giudizio finale della piattaforma Rousseau. Un voto che servirebbe a rafforzare l'espulsione decisa dai probiviri. L'ennesima ratifica da parte della «rete». A suggello del patto dell'Hotel Forum.
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