Beati gli ultimi perché saranno i primi. Luigi Di Maio ne è la prova vivente. A rigor di logica le sue sbandate filocinesi, l'infatuazione per i gilet gialli e l'indifferenza con cui ha sempre permesso a Recep Tayyp Erdogan di farsi gli affari propri in Libia e nel Mediterraneo gli sarebbero dovuti costare il pollice verso della nuova amministrazione di Joe Biden. Invece grazie alla presenza - evidentemente assai rassicurante - di Mario Draghi ai vertici del nostro governo, Di Maio sembra il nuovo «figliol prodigo» pronto a venir accolto nella casa del padre. Un padre che risponde al nome di Antony Blinken. Il segretario di Stato Usa, non pago di aver firmato un articolo a quattro mani con il nostro ministro degli Esteri sulle pagine del quotidiano Repubblica, si prepara ad accoglierlo nelle sale di quel Dipartimento di Stato dove nessun ministro straniero ha ancora messo piede dal varo della nuova amministrazione democratica.
La visita, al via lunedì, vedrà la partecipazione di Di Maio alle celebrazioni per i 160 anni delle relazioni diplomatiche Italia-Usa previste tra martedì 12 e mercoledì 13 aprile. Ma quell'invito inatteso è anche un segnale evidente di come l'amministrazione Biden sia decisa a «rieducare» e «recuperare» alla causa Atlantica Di Maio e tutta quella parte del Movimento 5 Stelle che sarà pronta a seguire le sue orme. L'operazione di riconversione politica rientra, però, nel più ampio disegno di rivalutazione dell'alleato Italia iniziato con la restituzione a Mario Draghi delle chiavi della Libia. Sbarcando prima di ogni altro leader europeo in un'ex-colonia da cui sembravamo ormai estromessi il presidente del Consiglio aveva già dimostrato di poter contare sulla fiducia di Washington. E aveva fatto capire come la sua missione non fosse solo la riconferma degli interessi italiani, ma anche il ridimensionamento di quelli turchi. Ruolo confermato quando non ha esitato a dare del dittatore ad un Erdogan abituato da troppo tempo a giocare a rimpiattino con Usa e Russia. Ora però c'è fa chiedersi quanto l'operazione di rivalutazione dell'Italia sia gradita ai vertici europei. Non troppo a giudicare dal glaciale silenzio dell'Unione sullo scontro Draghi-Erdogan. Il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel racconta di non riuscire a chiuder occhio da quando ha contribuito ad umiliare la presidente della Commissione Ursula von der Leyen accomodandosi al fianco del Sultano e relegandola su un divano. Ma nonostante lo struggente contrimento, si guarda bene dal condividere il pensiero di Draghi. E lo stesso fanno Angela Merkel e il presidente francese Emmanuel Macron. Ma quel silenzio va ben aldilà del semplice imbarazzo per la parola «dittatore» scaturita dalla labbra di Draghi.
Dietro il mutismo di Macron c'è la paura che Washington voglia fargli pagare le scorribande di Parigi a fianco del generale Khalifa Haftar. E dietro quello della Merkel c'è il sospetto che la mano tesa a Draghi sia un riconoscimento offerto all'unico che in Europa si oppose all'austerità tedesca. Un'austerità assai mal digerita, non solo dall'amministrazione Trump, ma anche da quella Obama (di cui Biden era numero due) che più volte chiese a Berlino di contenere il proprio «surplus commerciale».
Ora a far tremare non solo Francia e Germania, ma tutta l'Unione è il timore che gli Usa puntino su Draghi e sull'Italia non solo per riconquistare il Mediterraneo e mettere un freno a Erdogan, ma anche per ribaltare a proprio vantaggio le politiche degli alleati europei.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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