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Mannino assolto dopo 22 anni Crolla il teorema Stato-Mafia

Finito il calvario dell'ex ministro Dc: «Il fatto non sussiste». Duro colpo anche per il filone principale del processo sulla presunta trattativa. Il pm Teresi: «Non è un buon giorno»

L'assoluzione, dopo un calvario giudiziario lungo oltre 20 anni, è tutta per lui, Calogero Mannino, ex ministro Dc, già assolto tre anni fa dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e ora assolto «per non aver commesso il fatto» dal reato speciale - attentato a corpo politico dello Stato - inventato dall'ormai ex pm Antonio Ingroia per portare alla sbarra tutti insieme lui, altri politici, vertici dei carabinieri e boss di mafia. Ma il colpo mortale, vero, è al processo dei processi, quello su cui la procura di Palermo si gioca la faccia: quello sulla trattativa Stato-mafia, il patteggiamento tra Stato e Cosa nostra per fermare, tra il 1992 e il 1993, l'ondata stragista che da Palermo a Milano, passando per Roma e Firenze, ha insanguinato l'Italia. Ebbene ieri un giudice, Marina Petruzzella, il gup che col rito abbreviato ha processato e giudicato Mannino, ha stabilito in poco più di un'ora di camera di consiglio che l'ex ministro è innocente. E implicitamente ha sancito per sentenza che no, quella trattativa tra uomini dello Stato e boss, è un teorema non suffragato da prove.

Un colpo duro, durissimo, per la Procura. Una mazzata per l'erede di Ingroia, il pm Nino Di Matteo, titolare dell'accusa - con i pm Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene - sia di questo sia del processo principale sulla trattativa Stato-mafia. Sì, l'imputato assolto è uno solo, Mannino, l'unico a optare per il rito abbreviato. Ma a crollare è tutto l'impianto dell'altro processo, quello che vede vertici dei carabinieri come i generali Mario Mori e Antonio Subranni, politici come l'ex presidente del Senato Nicola Mancino (per falsa testimonianza) e Marcello Dell'Utri, boss come Totò Riina e Leoluca Bagarella imputati tutti insieme. Un processo show, che ha visto persino un capo dello Stato all'epoca in carica, Giorgio Napolitano, prima intercettato e poi obbligato a testimoniare. Avevano chiesto nove anni, Di Matteo& C., per Mannino, in un abbreviato fiume durato quasi due anni. Non li hanno ottenuti, e per di più si ritrovano col processo principale sulla trattativa Stato-mafia pronto a naufragare.

Non l'hanno presa bene, i pm. «Non è un buongiorno», ha detto amaro Teresi, lo stesso pm che qualche anno fa, quando altri giudici hanno assolto il generale Mori per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 2005, ha attaccato i colleghi dando «quattro» alla sentenza assolutoria, salvo poi aggiustare il tiro per evitare guai disciplinari. «Non replico alle parole di un imputato», ha detto Di Matteo dopo aver annunciato che la procura farà appello, riferendosi alle parole di Mannino che ha accusato di «accanimento» certi pm. Sul ricorso impone ai suoi pm una frenata, invece, il procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi: «Valuteremo se impugnare la sentenza dopo aver letto le motivazioni». Lo Voi ha però bacchettato Mannino per i toni usati coi pm: «Un po' di moderazione non guasterebbe». Piccato Ingroia: «È vero, come dice Mannino siamo ostinati. Ma l'unica nostra ostinazione è la ricerca della verità».

L'hanno presa male, i pm, mentre i difensori di Mannino parlano di «fine di un incubo». E l'ha presa malissimo il popolo delle Agende rosse, che ha inscenato una manifestazione davanti al palazzo di Giustizia. In primo piano le foto dello stesso Mannino, e gli ex ministri Claudio Martelli e Carlo Vizzini. Questa la didascalia: «Questi uomini sono rimasti vivi perché qualcuno ha trattato con la mafia. Giustificateli tutti». Già, perché la vera colpa è non essere stati ammazzati.

Una sentenza di assoluzione, di un giudice, non conta.

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