Una "manovra del popolo" tutta dispetti e sceneggiate

Salvini e Di Maio disertano due vertici convocati da Conte, poi trovano l'intesa. Fico boccia la pace fiscale

Una "manovra del popolo" tutta dispetti e sceneggiate

Mi si nota di più se vado o se non vado? L'immortale quesito morettiano di Ecce Bombo è diventato in questi giorni lo slogan dei vicepremier alle prese col pasticciaccio della manovra.

Domenica Salvini è rimasto a bere birra in giro per il Trentino, mentre Di Maio era in tv da Barbara D'Urso, e intanto a Palazzo Chigi gli altri ministri si agitavano attorno a confuse bozze di codoni fiscali, redditi di cittadinanza «geografici», liste di pensioni da decurtare o da anticipare. Il copione si è ripetuto ieri mattina, con Salvini in Lombardia e Di Maio chiuso da qualche parte a Palazzo Chigi con il muso, che al vertice presieduto dall'impotente Conte mandava per sfregio personaggi del calibro di Fraccaro e Laura Castelli. Intanto i due vicepremeir erano intenti a litigare a distanza, rinfacciandosi a vicenda il famoso «contratto di governo», e a dettare altolà contro le misure dell'altro: i grillini che attaccano a testa bassa i condono fiscale salviniano, facendo scendere in campo persino il presidente della Camera Fico, che della questione non dovrebbe proprio impicciarsi ma che ha voluto far sapere di non aver «letto di alcun condono fiscale», oltre ad attaccare la Lega sul caso Riace e sul caso Lecco. Beccandosi la rispostaccia del capogruppo leghista Molinari: «L'ultimo presidente della Camera che ricordo entrare così tanto nel dibattito politico era Fini, spero che Fico abbia più fortuna».

I leghisti, già afflitti da mal di pancia sul «sovietico» reddito di cittadinanza, attaccano lo «scippo» delle pensioni ideato dal M5s per raccattare (dai calcoli a casaccio di Di Maio) «un miliardo di euro».

Poi nel pomeriggio le due primedonne decidono di appalesarsi al vertice finale di maggioranza, e a sera, mentre inizia il Consiglio dei ministri, arriva l'annuncio: tutto andrà bene, l'amore trionferà anche questa volta. «Con gradualità e coraggio continuiamo a mantenere le promesse: Fornero, flat tax, Equitalia: anche su questi temi siamo il cambiamento», proclama Salvini, ignorando del tutto le pretese grilline. Intanto Di Maio annuncia lirico che la manovra sarà nientemeno che «un nuovo contratto sociale», e fa sapere che il braccio di ferro lo ha vinto lui, e la Lega se la è presa in saccoccia: «Il tetto massimo per il condono sarà di 100mila euro», altro che i cinquecentomila propagandati da Salvini. E comunque, aggiunge minaccioso il grillino, gli evasori andranno «in galera», altro che condoni.

Alla fine, capire cosa ci sia davvero nella manovra e nei collegati, con che stanziamenti e che coperture, e chi abbia vinto o perso è arduo. E forse proprio questo era uno degli scopi della lunga sceneggiata messa in atto dai vicepremier, per far crescere la tensione attorno alla «manovra del popolo» e far vedere ai rispettivi clienti elettorali quanto entrambi siano virilmente decisi a difendere le loro promesse di benefici a pioggia, e ad ostacolare quelle degli alleati.

Quel che appare certo è che, quando si arriva alla «roba», siano le misure economiche variamente clientelari da mettere in manovra, o siano le nomine Rai su cui ieri Lega e Cinque Stelle si sono accapigliati in modo furibondo, l'alleanza gialloverde inizia a vacillare.

Con il premier Conte spettatore del tutto ininfluente del braccio di ferro tra i suoi e il ministro Tria relegato nell'angolo a cercare disperatamente coperture per far fronte agli azzardi dei due capipartito in cerca di consensi.

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