Mari e ponti per vendere il Sì

Non è il ponte il marcio di Renzi

Mari e ponti per vendere il Sì

Questa è la storia di un venditore di «Sì», di uno che promette mari e ponti. Va dai commercianti e sul piatto mette una promessa di meno tasse. Va dai pensionati e sventola quattordicesime raddoppiate. Va negli ospedali e maledice i tagli alla sanità. Ai sindacati sussurra tutele e corsi di formazione, agli industriali mano libera sul lavoro e a chi sogna il capitalismo quattro punto zero disegna sentieri capillari di fibra ottica. Scrive su una vecchia lavagna recuperata negli studi di Mediaset una sorta di patto con gli italiani e poi come un fattucchiere da fiera di paese evoca dal palco della Triennale di Milano, dove si inaugura la mostra sui 110 anni del gruppo Salini Impregilo, il Ponte sullo Stretto. «Se sono pronte le carte noi ci siamo. Sblocchiamo in un attimo quello che è fermo da dieci anni». Abracadabra. Signore e signori ecco a voi il grande progetto di quella che Delrio chiama la Napoli-Palermo. Il guaio è che Pietro Salini risponde in un attimo «noi siamo sempre pronti». «Se avessi i permessi per cominciare domani mattina, in sei anni il ponte sta là». E adesso che si fa? Il ponte tocca farlo davvero. Smentendosi. Matteo Renzi, perché è di lui che si sta parlando, durante la campagna elettorale per le primarie Pd del 2012 sosteneva un'altra tesi: «Continuano a parlare dello Stretto di Messina, ma gli 8 miliardi li dessero alle scuole per la realizzazione di nuovi edifici».

Non è il ponte il marcio di Renzi. L'Italia ha bisogno di futuro, di progetti, di immaginare qualcosa che ancora non c'è, di coraggio, di imprese, di lavoro, di un fisco che non tolga il respiro, di un fermento che si può chiamare sogni. Solo che Matteo tutto questo lo svilisce, come se ogni volta le sue parole non avessero materia, ma fossero evanescenti, come le sparate di smargiassi da bar. Quello che a Renzi interessa è solo vincere il referendum del 4 dicembre. Non per amore delle riforme istituzionali, ma per il significato politico di quel voto. Non vuole vincere per fare qualcosa, ma per certificare il suo potere. E questo si legge in ogni suo gesto, nelle sue parole, nelle sue promesse, nei suoi progetti arruffati. È il suo più grande limite: orecchia e pasticcia. Come premier ci tiene ad apparire spiccio, svelto, veloce, solo che il suo agitarsi non genera movimento, non scarica a terra, non cambia la realtà. Quella riforma a cui dice di tenere tanto è un mezzo aborto e questo lo sospetta perfino lui. Non ha davvero abolito il Senato. Lo ha solo svuotato, per poi riempirlo di consiglieri regionali, con ruoli indefiniti. Non importa come si fanno le cose, l'importante è far vedere che in qualche modo sono state fatte. Poi il modo per venderle si trova. Questa è la malattia del nostro tempo. Non c'è cura. Non c'è amore. Non c'è orgoglio. Renzi è come un finto artigiano interessato non a quello che fa ma a come lo vende. Per un po' magari funziona, poi qualcuno però se ne accorge. È come il pasticciere che abbonda con la panna perché non sa fare la crema. La prova è proprio questa frenesia di chi svende le riforme promettendo mari e ponti.

Se fossero davvero buone non ci sarebbe bisogno di questo mercato dozzinale. Il 4 dicembre si va a votare per definire le regole del gioco della democrazia. Non si barattano con una carrellata di promesse tanto al chilo.

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