D imissioni revocabili. Si chiude così - almeno per ora - l'esperienza da sindaco di Roma di Ignazio Marino, scivolato irrimediabilmente sul cena gate . Con una lettera in cui annuncia le sue dimissioni, ma precisando di poter cambiare idea entro 20 giorni. Periodo nel quale l'ex sindaco spera di poter, attraverso una «verifica seria», tornare sulla sua poltrona. Ma il Pd non la pensa così.
La decisione di Marino è arrivata più che mai obtorto collo , al termine di una lunga giornata di assedio politico e mediatico al Campidoglio, cominciata mercoledì notte, quando il premier Matteo Renzi ha rotto gli indugi, dopo le polemiche scatenate dall'ultimo pasticcio, con i rimborsi spese per le cene offerte per «motivi istituzionali» e le conseguenti smentite di ristoratori e presunti ospiti a tavola. Così il presidente del consiglio ha incaricato il commissario romano dei dem , Matteo Orfini, di portargli la testa del sindaco il prima possibile.
Orfini aveva provato già due sere fa a convincere Marino al passo indietro, ma il chirurgo genovese ha fatto il soldato giapponese, asserragliandosi in Campidoglio e provando di tutto per non capitolare. Prima ha fatto i conti con la giunta, in un faccia a faccia con i suoi assessori ai quali Marino ha chiesto supporto per non «restituire la città ai mafiosi». Ma il Pd a quel punto aveva abbandonato le vie della diplomazia. E l'appello si è concluso con le dimissioni immediate del «blocco» renziano, insediatosi lo scorso luglio nell'ultimo rimpasto. A voltargli le spalle il suo vice, Marco Causi, il responsabile dei Trasporti, Stefano Esposito, e l'assessore al Turismo Luigina Di Liegro. E a parte un paio di eccezioni, anche il resto della sua squadra ha manifestato dubbi sulla possibilità di andare avanti. A quel punto Marino ha convocato una riunione di maggioranza per «contare» i soldati a lui fedeli. Ma consiglieri e assessori dem erano già al Nazareno, chiamati da Matteo Orfini, così il sindaco ha dovuto cancellare il meeting, restando praticamente solo nei suoi uffici al Campidoglio. Nella piazza blindata dalla polizia, intanto, dalla tarda mattinata si è scatenato un tifo da stadio, con il variegato fronte anti-Marino (Fi, Fdi, lista Marchini, M5S, Ncd e Casapound) a scandire slogan e sfottò, e un gruppo di supporter del sindaco raccolto dietro un cartello giallo: «Resisti». Un invito che l'ormai ex primo cittadino è sembrato fortemente intenzionato a raccogliere fino all'ultimo, per nulla rassegnato a finire giubilato con disonore, sull'onda delle polemiche per l'ultimo pastrocchio degli scontrini, tanto più che la procura di Roma, ieri, ha fatto sapere che avrebbe temporeggiato con le indagini in attesa degli sviluppi «politici» e dell'acquisizione degli atti. Ma anche senza la «spinta» di un avviso di garanzia, Marino ha dovuto gettare la spugna. Perché, al tramonto, Causi e l'assessore alla Legalità Alfonso Sabella sono tornati sul colle capitolino come «emissari» della volontà del partito, spediti da Orfini per convincere Marino al fatidico passo indietro. «È finita, il Pd non ti sostiene», gli hanno spiegato. E al sindaco con la giunta e la maggioranza fatte a pezzetti non è rimasto altro da fare che arrendersi. Ma anche l'addio è pieno di veleno, e arriva con una lettera nella quale il chirurgo prestato alla politica lavora d'ascia più che di bisturi, scagliandosi contro la «furiosa reazione» al suo «impegno» per avviare «cambiamenti epocali». Una vera «aggressione», scrive, per «sovvertire il voto democratico dei romani» che «oggi arriva al suo culmine», aggressione alla quale ha partecipato, prosegue l'ex sindaco, anche «chi questa esperienza avrebbe dovuto sostenerla». Fino alla resa, con minaccioso distinguo: «Presento le mie dimissioni. Sapendo che queste possono per legge essere ritirate entro venti giorni».
di Massimo Malpica
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