Guerra in Ucraina

Il martello dell'artiglieria e la massa dei soldati: le "nuove" armi di Mosca

"Niet sivonya za preshena". "Non si passa, è vietato". L'ufficiale delle forze indipendentiste di Lugansk è, anche oggi, irremovibile

Il martello dell'artiglieria e la massa dei soldati: le "nuove" armi di Mosca

«Niet sivonya za preshena». «Non si passa, è vietato». L'ufficiale delle forze indipendentiste di Lugansk è, anche oggi, irremovibile. A Severodonetsk non si va. E poco importa che gli alleati ceceni esibiscano i filmati girati tra edifici distrutti e strade deserte. Per ora ai russi e agli alleati del Lugansk non sembra fregare niente di esibire l'imminente vittoria. Un po' perché i primi due giornalisti russi mandati dentro lunedì si son presi una granata ucraina e ne sono usciti malconci. Un po' perché il senso di Mosca per l'informazione sembra regredito all'era sovietica. «Con le balle che raccontate in Europa - sintetizza un ufficiale di Lugansk - c'interessa poco della vostra informazione, scrivete quel che volete quando avremo il controllo della città vi porteremo dentro...».

Anche questa risposta dà il senso delle due guerre combattute da queste parti. Da una parte quella degli ucraini che per 60 giorni grazie alle armi occidentali, alla conoscenza del territorio e alle capillari informazioni d'intelligence passate da Londra e Washington, hanno sfruttato al meglio i colossali errori strategici di una Russia convinta di piegare Kiev in una manciata di ore. Ma quel capitolo iniziale rappresentava una congiuntura irripetibile di cui sopravvive soltanto l'indubbia superiorità di Kiev nel campo dell'informazione e della propaganda. Ma dominare l'informazione senza vincere sul campo serve a poco. E le battaglie del Donbass ne sono la dimostrazione. Qui più dell'intelligence, della precisione dei Javelin, della guerra invisibile dei droni contano la massa critica dell'armata di Mosca e la resilienza del «miles» russo. E con esse la fiducia dei suoi generali in una dottrina strategica, immutata dai tempi dell'Urss, che affida all'artiglieria il compito di chiudere il nemico in sacche concentriche per condannarlo alla ritirata o alla resa. Sul fronte di Severodonetsk tutto questo fa la differenza.

La massa critica dell'armata russa risulta evidente lungo tutto il fronte che corre da Popashna, a Sud, fino a Rubizhne sul lato settentrionale di Severodonetsk. Su quell'arco di 60 e passa chilometri non c'è città, sentiero o villaggio dove non si muovano camion e blindati russi, ceceni o indipendentisti. Ma in quel formicolio incessante colpisce l'arretratezza di tanti mezzi. I blindati Bmp e Btr, già inadeguati nell'Afghanistan di 40 anni fa, continuano a rappresentare il guscio gelido o torrido, ma sempre vulnerabilissimo e inaccettabile per qualsiasi soldato occidentale su cui, invece, il fante russo continua a raggiungere le prime linee. Anche da questo emerge la resilienza di un esercito capace di accettare non solo le scomodità, ma anche le atrocità e le perdite del campo di battaglia con un un'indole ormai aliena alle nostre latitudini. Una resilienza, o una rassegnazione, che possono sembrarci inaccettabili o assurde, ma che unite alla massa critica dei 60mila militari dispiegati su queste linee e al fuoco martellante dell'artiglieria finiscono con il produrre l'effetto desiderato.

Non a caso i 15mila soldati di Kiev, rinchiusi nella morsa di Severodonetsk e della prospiciente Lysycansk sembrano aver accettato l'irreversibilità della sconfitta. A provarlo contribuiscono gli appelli pubblicati quotidianamente su internet dagli ufficiali che implorano Zelensky di concedere alle loro unità l'opportunità di una ritirata o di una resa. Ma i ripetuti e sofferti no di Kiev, seguiti da nuove pressanti richieste, evidenziano anche la frattura sempre più evidente tra forze sul campo e dirigenza politica. Una frattura inimmaginabile nella prima fase del conflitto. Una frattura frutto anche delle pesantissime perdite registrate in questa fase dagli ucraini. Perdite accettate finché si vinceva, ma insopportabili quando bisogna far i conti con la prospettiva della ritirata o della resa.

E a rendere più impari lo scontro s'aggiunge la bilancia del morale. Mentre quello degli ucraini scende, quello russo riacquista slancio grazie all'indole di un popolo del Donbass più propenso a salutare i soldati di Mosca come liberatori anziché come forze d'occupazione. Tutti elementi che non sfuggono a Washington e Londra e che influenzano inevitabilmente le decisioni sulle forniture di nuove armi. Perché più la riconquista del Donbass evocata da Zelensky si rivelerà una pia illusione più sarà indispensabile passare alle trattative quando Putin annuncerà il raggiungimento del suo principale obbiettivo, ovvero la piena conquista dei territori di Lugansk e Donetsk. Anche perché l'alternativa sarebbe rischiare di vederlo arrivare a Odessa.

O, peggio, ritrovarsi prigionieri di un'escalation senza precedenti nel tentativo di fermarlo.

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