
Donald Trump lo ha capito tardi, ma l'evidenza era sotto gli occhi di tutti: nella partita a poker del commercio globale, la Cina tiene in mano l'asso di briscola. Si tratta del quasi monopolio mondiale sulle terre rare e sui minerali critici, il cuore silenzioso dell'industria avanzata occidentale e delle nuove strategie di difesa.
Lo shock è arrivato dopo la cosiddetta "Liberation Day" del 2 aprile, quando l'amministrazione americana ha imposto dazi punitivi al resto del mondo, con Pechino come bersaglio principale. La risposta cinese non si è fatta attendere: il ministero del Commercio ha introdotto restrizioni sulle esportazioni di sette terre rare. Nel giro di poche settimane, l'impatto si è riverberato sull'industria automobilistica e tecnologica occidentale. A inizio giugno, Jim Farley, ceo di Ford, ha ammesso che la scarsità di magneti a base di terre rare aveva costretto la casa di Detroit a fermare alcune linee produttive. Analoghe difficoltà si sono registrate in Europa, confermando la fragilità di una catena di approvvigionamento interamente dipendente da Pechino.
Non è un caso che oggi la Cina possa vantare condizioni tariffarie più favorevoli con gli Stati Uniti rispetto a partner come Svizzera e India. L'asso che stringe in mano Xi Jinping è di gran lunga più potente di qualsiasi contromossa europea, come un ipotetico embargo su borse o profumi di lusso. La realtà è che l'F-35 americano integra componenti magnetiche basate su samario e ittrio provenienti dalla Cina, mentre la transizione verde europea dal germanio per le batterie al neodimio per le turbine eoliche non può prescindere dalle forniture cinesi.
Questa dipendenza non nasce per caso. Nel 1987 Deng Xiaoping dichiarava: "Il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina ha le terre rare". Da allora Pechino ha perseguito con determinazione un piano industriale che ha trasformato un settore inquinante e poco redditizio in un pilastro geopolitico. Oggi controlla il 60-70% delle estrazioni mondiali e fino al 90% della raffinazione. Un predominio che l'Occidente conosce da decenni ma che ha scelto di ignorare, paralizzato da ambientalismo di maniera e dalla diffidenza verso un ritorno della politica industriale. "Abbiamo osservato il problema per anni", ha confessato al Financial Times un funzionario americano, sintetizzando l'inazione di Washington e Bruxelles.
Qualcosa però si muove. Washington ha cominciato a inserire i diritti minerari come moneta di scambio nei negoziati diplomatici, dal Rwanda al Congo fino all'Ucraina. L'Unione europea ha varato il Critical Raw Materials Act, fissando obiettivi di riduzione della dipendenza da Pechino. Ma la realtà è che sul terreno non esiste ancora una sola miniera operativa di terre rare in Europa, mentre le due raffinerie attive non bastano neppure a soddisfare una frazione del fabbisogno. L'espansione del sito Solvay in Francia potrebbe rappresentare un primo passo, ma i costi lieviteranno inevitabilmente per via dei vincoli regolatori.
Ci sono voluti vent'anni per diventare così dipendenti dalla Cina, e ne serviranno almeno altri venti per spezzare il legame. Ma il tempo, questa volta, non è un fattore neutro: le rivalità geopolitiche e le nuove guerre commerciali rischiano di rendere la finestra di manovra molto più stretta.
La lezione è che i mercati, da soli, non bastano a garantire sicurezza industriale e sovranità strategica. Continuare a delegare a Pechino la fornitura di minerali critici significa consegnare all'avversario non solo il volante della transizione verde, ma anche il cuore delle difese occidentali. Un errore che potrebbe rivelarsi irreversibile.
Dobbiamo correre, senza aspettare necessariamente Bruxelles, sfruttando gli spazi fiscali offerti dalla compressione gli spread e la disponibilità di
liquidità del mondo privato innanzitutto sul trading fisico internazionale e lo stoccaggio strategico di materia prima. Ne va della tenuta del nostro impianto industriale che, non va mai dimenticato, è di trasformazione.