«Anche le foibe e l'esodo forzato furono il frutto avvelenato del nazionalismo esasperato e della ideologia totalitaria che hanno caratterizzato molti decenni nel secolo scorso». Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella sua dichiarazione in occasione del Giorno del ricordo, che si celebra oggi, ha speso belle parole per commemorare l'eccidio dei nostri connazionali giuliano-dalmati da parte delle milizie titine. Anzi, ha fatto di più evidenziando come le foibe facciano «parte, a pieno titolo, della storia nazionale e ne rappresentino un capitolo incancellabile, che ci ammonisce sui gravissimi rischi del nazionalismo estremo, dell'odio etnico, della violenza ideologica eretta a sistema».
Il capo dello Stato ha voluto ribadire senza se e senza ma che la mattanza della Venezia Giulia deve far parte della memoria condivisa degli italiani proprio contro coloro che bollano ancor oggi quelle vittime come «fascisti che dovevano essere giustiziati» o che cercano di minimizzare la portata dell'evento. Nelle parole di Mattarella, però, hanno pesato anche i fatti di Macerata e la montante insofferenza verso l'ondata migratoria la cui pessima gestione ha reso difficile la convivenza nelle nostre città. Il presidente della Repubblica, ovviamente, ha voluto volare alto, sintetizzando con l'espressione «nazionalismo estremo» l'insieme delle cause di violenze e discriminazioni su base etnica.
A farne le spese, purtroppo, non è solo il Giorno del ricordo che squarcia il velo agiografico della lotta partigiana (i titini, infatti, avevano l'appoggio di collaborazionisti italiani) cercando di costruire l'utopia di una memoria condivisa, ma anche una certa idea di patriottismo. Oggi l'ideologia comunista e «internazionalista» è un cimelio rispettato e venerato. Non altrettanto può dirsi del sentimento di amor patrio. E non solo perché la Venezia Giulia, insieme a Trento, era il lascito della vittoria italiana della Grande Guerra, ma perché nel 2018 potrebbe essere altrettanto decisivo celebrare un'«italianità» intesa non come folclore ma come amor patrio. Quello dei caduti nelle foibe, infatti, non era meno sincero di quello delle vittime delle stragi nazifasciste.
E, invece, ieri è toccato assistere a una sequela di episodi imbarazzanti. Il sindaco M5S di Torino, Chiara Appendino, ha prima negato e poi concesso l'autorizzazione ad alcune manifestazioni con il risultato che estrema destra e antifascisti sfileranno ognuno per conto proprio. La stessa cosa accadrà a Roma dove, però, il sindaco Raggi organizzerà una cerimonia in Campidoglio.
A Milano, invece, il sindaco Giuseppe Sala non sarà alla commemorazione e invierà l'assessore alla Partecipazione, il radicale Lorenzo Lipparini. «Neanche quest'anno il Comune poserà il monumento alle vittime delle foibe e agli esuli: è da tre anni che li prende in giro», ha chiosato il consigliere regionale Fdi, Riccardo De Corato. Situazioni che fanno il paio con l'autorizzazione negata dalla città pisana di Pontedera a un comizio elettorale di Fratelli d'Italia, giudicata a torto da alcuni una formazione incostituzionale anziché un partito uguale gli altri.
«Resta la sensazione che ci siano caduti e cerimonie di serie B», ha chiosato ieri il vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri, denunciando «troppe distrazioni, troppe sottovalutazioni e intollerabili iniziative negazioniste».
Se si giustifica il cortocircuito logico nazionalismo-razzismo-fascismo, se si collegano le foibe con Macerata, se si continua a pensare che le idee giuste stiano da una parte sola, quella che predica accoglienza e integrazione (e poi non vuole i migranti nella radical chic Capalbio), non solo si tradisce il ricordo di 20mila vittime e di 250mila esuli, ma si alimenta quella guerra civile strisciante che dura da 70 anni.
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