Senza sbavature né ritardi, l'accordone tedesco sulla nuova legge elettorale marcia inesorabile in Parlamento. Ieri si è chiusa la partita in commissione, correggendo in corsa tutte le criticità. Oggi sarà in Aula alla Camera, dove potrebbe essere varato in settimana. Poi toccherà al Senato, per finire il tutto ai primi di luglio. In tempo per poter votare a fine settembre.
Una macchina così rapida ed efficiente da far venire a molti il dubbio che a farla marciare in carreggiata abbia contribuito una alta regia istituzionale. Del resto, il 26 aprile scorso Sergio Mattarella aveva, con gesto inusuale, convocato al Quirinale i presidenti delle Camere per dare una sorta di ultimatum: si faccia subito la legge elettorale. E così è stato: vinte le primarie, Matteo Renzi ha iniziato il suo gioco tattico, giocando su diversi tavoli e con vari schemi di riforma. E ha chiuso sul tedesco, su cui ha incassato il sì di Berlusconi, Grillo e Salvini. Un accordo che alla fine può far convergere sulla legge elettorale l'80% del Parlamento italiano: un record politico, e un'immagine rassicurante, degna di quel «Paese coeso» evocato il 2 giugno da Mattarella, per la Ue e i mercati. Ecco perché il lavorio diplomatico del Colle ha aiutato e spinto dietro le quinte il processo. «Il Quirinale parla con tutti», si limitano a dire da quelle parti. Ma la quadratura del cerchio per cui Renzi ottiene il voto anticipato, Berlusconi e Grillo il proporzionale e l'abolizione delle preferenze, e i Cinque Stelle una prima legittimazione parlamentare, deve pur aver trovato un sigillo e una garanzia istituzionale.
Se tutto andrà secondo copione, una volta approvato a larga maggioranza il tedesco il premier Gentiloni potrebbe, in accordo con Renzi e Mattarella, dichiarare conclusa la funzione del suo governo. Anche perché la lacerazione con alfaniani ed Mdp, a quel punto, sarà definitiva e la maggioranza non ci sarà più. E lo scioglimento delle Camere avverrebbe con la benedizione dei quattro principali partiti, pronti ad un'originale campagna elettorale d'agosto.
Intanto in casa Pd crea particolare irritazione (e allarme) il risveglio dal letargo di Romano Prodi, che in una raffica di esternazioni e interviste - l'ultima significativamente concessa nientemeno che al quotidiano grillino Il Fatto - continua a prendere le distanze dal Pd. Qualcuno ha addirittura anticipato che l'ex premier potrebbe dare la sua benedizione alla sinistra radical di Pisapia e D'Alema, giusto per far dispetto a quel perfido Renzi che due anni fa non lo candidò alla presidenza della Repubblica, preferendogli Mattarella. Ma il Professore si mostra assai prudente e dice che darà l'addio al Pd solo se nella prossima legislatura (quindi dopo il voto) si alleerà con Berlusconi. «C'è un solo modo per evitare che il Pd debba fare larghe intese, fargli prendere il maggior numero di voti possibile», gli replica Renzi, che a Pisapia dice: «Quando la sinistra radicale si renderà conto che non siamo noi gli avversari sarà un gran giorno». E sul voto anticipato: «Noi non abbiamo fretta di votare, abbiamo fretta di abbassare le tasse».
Prodi, secondo alcuni, spera di essere chiamato come salvatore della patria nel caso in cui, nel prossimo parlamento, nessun altro sia in grado di mettere insieme una maggioranza. Di certo però l'ex premier dell'Ulivo si arruola in quel piccolo plotone di esponenti del centrosinistra (da Bersani a Letta all'ineffabile Rosy Bindi) che sperano di tornare in campo previa eliminazione del leader Pd. Roberto Giachetti, new entry della segreteria renziana, replica per le rime a chi, come Prodi, accusa il Pd di aver voluto il proporzionale: «Ricordo a lui e a Veltroni che con maggioranze e governi di centrosinistra il Porcellum non venne mai cambiato. E che i numeri per il Rosatellum, a impianto maggioritario, non c'erano proprio perché i vari Bersani e Speranza hanno votato contro».
Mentre il capogruppo Ettore Rosato chiude seccamente la partita: «Noi siamo alternativi alla destra. Ma ricordo - sottolinea perfidamente - che l'accordo con Berlusconi lo abbiamo fatto con Bersani segretario e Letta presidente del Consiglio».
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