Il «cavallo» da tenere d'occhio nella partita a scacchi su Carige è la famiglia Malacalza, primo azionista dell'istituto ligure. Perché? Chi sono, e cosa fanno, Vittorio e i due figli, Davide e Mattia? Ma, soprattutto, quali mosse hanno a disposizione per fare scacco matto e non perdere altri milioni nei caveau dell'ex Cassa di Risparmio di Genova?
Nel marzo del 2015 Vittorio Malacalza è diventato l'azionista di controllo della banca che nel 1961 gli concesse il primo prestito - 20 milioni di lire - quando faceva il commerciante nel settore dell'edilizia e aveva solo tre dipendenti. Da allora ha investito più di 420 milioni ed è salito attraverso la Malacalza Investimenti al 27,5%, quota che con il titolo congelato in Borsa sta registrando una minusvalenza potenziale del 90 per cento. Il core business di famiglia - i superconduttori industriali - è però custodito nella holding Hofima (ha un patrimonio di 600 milioni), di cui è socio unico e ad Davide Malacalza, che a sua volta controlla il 48% di Malacalza Investimenti guidata dal fratello minore, Mattia.
Finora il patron Vittorio, che ha sempre preferito ai salotti le uscite sulla sua barca a vela «Maidomo» (nel senso di «mai domato») ha evitato gli scogli mettendo mano al portafoglio per ridare benzina al motore di Carige ingolfato, sia chiaro, dalle gestioni precedenti. Ma il 22 dicembre si è astenuto dal voto in assemblea facendo saltare l'aumento di capitale da 400 milioni che gli sarebbe costato altri 110 milioni portando il conto sopra i 530 milioni. Così è scattato il commissariamento di Carige da parte della Bce e poi il decreto lampo approvato lunedì scorso per aprire il paracadute di Stato. Che sia ancora lui l'ago della bilancia della partita lo dimostra il forte pressing del governo. Il premier Giuseppe Conte ha alzato il telefono e chiamato i Malacalza a Capodanno per convincerli a staccare l'assegno. Invano. «Il decreto è stato necessario perché i privati non ci hanno messo i soldi», ha tuonato il sottosegretario leghista, Giancarlo Giorgetti, riferendosi sia a un potenziale cavaliere bianco da trovare sia ai Malacalza. Che prima di decidere se mettere altre «palanche» vogliono però vedere il nuovo piano industriale perché agli «sforzi profusi e ai sacrifici affrontati» dalla famiglia e dai piccoli azionisti «deve attribuirsi altissimo merito», hanno scritto in una nota.
Dipende, dunque, da loro il secondo step del salvataggio dell'istituto genovese. L'aumento di capitale è garantito dal bond subordinato da 320 milioni sottoscritto dalle banche italiane attraverso lo Schema Volontario del Fondo interbancario. Il titolo può essere convertito in azioni ma serve comunque l'ok all'operazione da parte dell'assemblea e quindi anche del gruppo Malacalza. Certo, Vittorio e i figli hanno un sentiero stretto su cui muoversi: se non partecipano all'aumento, perdono il denaro investito. Nell'ipotesi «residuale» come l'hanno definita i commissari di Carige, ovvero la ricapitalizzazione pubblica precauzionale, la quota dei Malacalza e degli altri azionisti verrebbe comunque azzerata. E anche in caso di aggregazione, opzione imposta da Francoforte ma in passato già respinta dalla famiglia, verrebbero diluiti.
Ma il «mai domo» non si arrende. Qualche settimana fa, ha scritto MF, Hofima ha costituito una nuova società, la Acom, che si occuperà dell'acquisto e della gestione in proprio di «crediti, anche litigiosi».
Carige deve ancora liberarsi di 1,5 miliardi di euro di deteriorati (sui 2,8 totali rimasti), possibilmente entro fine febbraio. Una zavorra per i bilanci delle banche ma un business ghiotto per chi opera sul mercato. Sarà questa la mossa del «cavallo»?
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.