Migranti, la notte della paura viene risolta col volontariato: è scontro con Macron

Sui centri di accoglienza decidono gli Stati. Parigi: toccano all'Italia. Conte: smentisco

Migranti, la notte della paura viene risolta col volontariato: è scontro con Macron

Domani è un altro giorno, si vedrà, devono aver pensato i due Big d'Europa Macron e Merkel mentre convincevano il premier Conte a firmare le conclusioni del Consiglio europeo più tormentato che Bruxelles ricordi. Ma il day after della notte più lunga (e insonne) per l'Unione europea (nove ore di trattative, il via libera solo all'alba) prova che lo scontro nel Vecchio continente travagliato dalla questione immigrazione non è destinato a placarsi nemmeno per qualche ora. E il risveglio più brusco è per l'Italia, nonostante la promessa della Ue di restare al nostro fianco. Tutto condensato nella formula-trappola per il nostro Paese, quell'espressione «unicamente su base volontaria» che compare al punto 6 dell'intesa e lascia ai singoli Paesi libertà di decidere se accogliere «i migranti che vengono salvati, a norma del diritto internazionale». Un modo per dire che tutti gli altri Stati membri potranno scegliere sull'apertura di centri di accoglienza, tranne i soliti: Italia, Spagna e Grecia, inchiodati al trattato di Dublino.

Se ce ne fosse bisogno, a precisarlo dopo aver incassato la firma italiana, è di nuovo il presidente Macron, trasformatosi solo per qualche ora nell'uomo della mediazione, (soprattutto per conto della mentore Angela Merkel) e tornato immediatamente dopo nel ruolo di arcinemico dell'Italia, come ormai non smettono di rinfacciargli Matteo Salvini e l'ala dura del governo di Roma. Sì, perché nel frattempo, il capo dell'Eliseo si affretta a precisare che «la Francia non aprirà centri di accoglienza per migranti» e che «il concetto di Paese di primo arrivo non è cancellabile». «Ci sono Paesi di prima accoglienza in Europa - spiega molto chiaramente il leader francese - È la regola di Dublino. Questi Paesi hanno una responsabilità» e l'accordo «non esonera dalla responsabilità». Il regolamento di Dublino, insomma, resta in piedi così com'è. Incluso l'obbligo di accoglienza dei Paesi di primo ingresso come l'Italia. La sua riforma è rinviata a tempo indeterminato. E lo schiaffo per Roma è talmente forte che, dopo aver esultato per l'intesa nelle prime ore del mattino, appena dopo (mentre nel frattempo ha sentito Matteo Salvini) Conte rimette l'elmetto: «Macron era stanco, abbiamo lavorato fino a notte fonda, lo smentisco. Nell'articolo 6 non si fa riferimento a un Paese di primo transito e nell'articolo 12 si parla della riforma del regolamento di Dublino». In realtà, nell'intesa compaiono solo vaghi propositi: «È necessario trovare un consenso sul regolamento di Dublino per riformarlo», si legge nelle conclusioni. E oggi più che mai questo consenso appare lontano.

Non è un caso che per il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk «non si possa parlare di un successo» e che a esultare per «una vittoria gigantesca» (parole del premier polacco Mateusz Morawiecki) siano i Paesi del gruppo Visegrad (Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia e Ungheria): «Insieme siamo riusciti a prevenire la redistribuzione obbligatoria degli immigrati». E non sono gli unici a potersi considerare soddisfatti. Angela Merkel, con l'indispensabile aiuto francese, raggiunge un accordo di riammissione sui movimenti secondari con Grecia e Spagna (l'Italia è fuori, «la priorità del governo al momento è un'altra», dice Conte). Frau Kanzlerin si salva, per ora, dalle forche caudine a cui l'avrebbe costretta il ministro dell'Interno Seehofer se non avesse ottenuto garanzie sui migranti che dalle coste europee poi si spostano verso il Nord Europa.

Chi resta a mani vuote sembra proprio Conte. Sostiene di aver bullizzato «un pochino» la Ue, si dice soddisfatto all'80% e attribuisce il 70% a Salvini, che pure chiosa: «Non mi fido delle parole».

Intanto viene sbeffeggiato per il siparietto della notte: «Sono un professore di diritto, voglio usare un approccio legale», ha detto ai colleghi di Bruxelles. Costringendo lo svedese Stefan Lofven e il bulgaro Boyko Borisov a replicare: «Io sono ex saldatore» (il primo) e «io un ex pompiere» e «questo non è il modo di negoziare».

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