C ome andrà a finire non si sa, e nemmeno si sa quale quotidianità attenda da domani Milano, nel limbo in cui il passo indietro di Beppe Sala precipita non solo la vita politica, i suoi assessori - quelli ormai navigati come i piddini Majorino o Maran o Rozza, quanto i neofiti arrivati con lui a Palazzo Marino - rimasti bruscamente senza guida; ma anche la imponente macchina burocratica che manda avanti la città; e poi, più in generale, la città tutta, che anche in questi anni di nebbiosa incertezza ha continuato a sentire il sindaco, chiunque egli fosse, come punto di riferimento. Anche negli anni del populismo più becero e trionfante, il milanese che passando in piazza della Scala alza gli occhi verso Palazzo Marino, verso le finestre illuminate, sa che dietro quelle finestre c'è il «suo» sindaco. E pazienza se in realtà l'ufficio del sindaco è sul lato opposto del Palazzo, affacciato sulla statua di Manzoni in piazza San Fedele.
C'è, insomma, un certo senso di laica sacralità collettiva nel rapporto tra il milanese medio e il suo Municipio, e chissà se in questo sentire c'entra qualche sparsa cellula di Dna asburgico. Di certo c'è che ieri, per la prima volta, quella sacralità viene violata. Per la prima volta, la «capitale morale» sa che il suo primo cittadino è sotto inchiesta. Non era mai accaduto. Un solo caso si ricorda di sindaco indagato in corso di mandato: il socialista Paolo Pillitteri, lambito nel 1990 dalla risacca dell'inchiesta Duomo Connection; ma il segreto resse, e dell'indagine sul sindaco si seppe solo quando ormai era stata archiviata. Oggi invece la ferita alla città viene inferta in diretta, e già giovedì sera, nell'imperversare dei siti e dei social network, più della soddisfazione crudele o della difesa d'ufficio serpeggia il disorientamento. Perché questa non è - sia detto senza sorta di sciovinismo - una città abituata al cinismo, al nun me ne po' fregà de meno. L'inchiesta su Sala è ferita in carne viva al suo animo perbene e persino un po' perbenista.
E va bene che le soglie di indignazione si sono abbassate con gli anni, e non è più l'epoca in cui l'ombra di un sospetto bastava a chiudere le porte del Clubino dadi o della Società del Giardino. Ma l'orgoglio di sentirsi città onesta, e ipso facto onestamente amministrata, permane, attraversa le classi sociali e le generazioni: ed è questo orgoglio a sentirsi leso, anche se le colpe attribuite al sindaco riguardano un periodo in cui Sala era altrove.
E adesso, cosa accade? Alla domanda che tutti si pongono si cerca risposta in queste ore nei meandri di norme inesplorate. Il prefetto Marangoni dice che il sindaco non può autosospendersi, ma Sala mettendosi in ferie e soprattutto spogliandosi delle deleghe operative di fatto ottiene il medesimo risultato: esce di scena, congela la fascia tricolore passando tutto nelle mani della sua inesperta vice, Anna Scavuzzo. Quando tornerà a Milano, riprenderà il suo posto ma di fatto senza poteri e senza agire, una sorta di Ratzinger che inevitabilmente incomberà sulla quotidianità anche senza intervenirvi. La innaturalità e la insostenibilità di una tale situazione sono evidenti, ma la legge non la impedisce e non le pone limiti. E dunque gli unici limiti sono quelli del buon senso e della ragion politica. E nel limbo (per non dire a rischio) rimane il faraonico piano per le periferie annunciato solo lunedì scorso dal sindaco, 356 milioni di euro per risanare 5 quartieri popolari. E l'opposizione si rifiuta di discutere con un sindaco supplente il Bilancio di previsione 2017 (dentro oltre alle opere pubbliche ci sono 35 milioni di fondi contro la povertà e quelli per la riduzione dell'inquinamento). Sala mette un termine al suo autoesilio, «tornerò quando avrò chiarito».
Ma a chi spetti considerare chiarita la storia di Expo, di quei pateracchi fatti magari in buona fede e con la scusa di fare in fretta, non si sa. Milano si interroga, e alza lo sguardo verso quelle finestre improvvisamente vuote.
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