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"Il ministro deve dimettersi". Bomba innescata nel governo

Tiepida difesa del Pd. Renzi critico, opposizioni all'attacco. Conte: "Mi informò della scelta. Pressioni dai boss? Irreale"

"Il ministro deve dimettersi". Bomba innescata nel governo

C'è una sorta di poetica Nemesi nella sciagura che si è abbattuta sull'ala grillina del governo. Con il magistrato considerato un vero e proprio guru dai manettari Cinque Stelle che accusa - in pratica - di concorso esterno in associazione mafiosa il ministro grillino più importante (e più forcaiolo, oltre che più fortemente legato a Conte, di cui è stato il talent-scout), reo di non avergli assegnato l'incarico cui ambiva. In una telefonata con Alfonso Bonafede, il presidente del Consiglio (già tale all'epoca dei fatti) ha ribadito «piena fiducia per il suo operato» al Guardasigilli, «ha ricordato di essere stato da lui informato dell'intenzione di coinvolgere Di Matteo in una posizione di rilievo» e definito la sola ipotesi «fuori dalla realtà».

La sintesi più azzeccata la fornisce Matteo Renzi, feroce critico del Guardasigilli: «È un pesante regolamento di conti tra giustizialisti». E in serata da Iv precisano: «Stavolta non ne chiediamo le dimissioni: un processo di piazza da parte di un magistrato è intollerabile. Nessuno tocchi Bonafede».

Le opposizioni sono partite lancia in resta contro il Guardasigilli già nella serata di domenica, mentre lo scontro tra Bonafede e Di Matteo si consumava nel circo tv di Giletti. La parola d'ordine è «dimissioni»: «Fossi nei panni del ministro le rassegnerei subito», dice Giorgia Meloni. «Le accuse a Bonafede sono gravissime - dice Matteo Salvini - stiamo valutando i prossimi passi, perché è chiaro che uno dei due mente: se mente un magistrato come Di Matteo è grave, se mente il ministro di Giustizia è devastante». Da Forza Italia arriva la richiesta di immediati chiarimenti, e la sottolineatura che uno dei due protagonisti della pubblica rissa deve avere per forza torto: «O Di Matteo lascia la magistratura, o Bonafede lascia il ministero», dice Mariastella Gelmini. Il responsabile giustizia azzurro, Enrico Costa, stigmatizza il «cortocircuito forcaiolo» tra ministro e pm, «un regolamento di conti tv indegno degli incarichi che ricoprono».

Il governo è scosso, i Cinque Stelle vanno in tilt, sconvolti dal frontale tra due punti di riferimenti, e si spaccano tra bonafedisti (pro governo) e dimatteiani (anti governo). Italia viva (che chiede da tempi non sospetti le dimissioni di Bonafede) si smarca e reclama chiarimenti dal ministro, infierendo su M5s: «Se Di Matteo avesse detto quelle cose del ministro di un altro partito - nota Davide Faraone - avremmo Di Battista in marcia su Roma, Di Maio sui tetti di Montecitorio e Bonafede incatenato a Via Arenula». Alla fine, l'onere di difendere il ministro ricade sulle spalle del Pd, che con l'ex Guardasigilli Andrea Orlando si leva lo sfizio di dare ai grillini una lezione di garantismo, ora che il loro forcaiolismo si trasforma in boomerang: «So che Bonafede forse non ragionerebbe così, ma se un ministro dovesse dimettersi per i sospetti di un magistrato si creerebbe un precedente gravissimo. Il sospetto non è l'anticamera della verità». Viene offerta a Bonafede anche la exit strategy: «venga a riferire» non della trattativa Stato-Di Matteo sul Dap, ma «sull'impegno del governo contro le mafie».

A difendere il ministro, di cui sono stati i più duri critici, sono i garantisti, con l'Unione Camere Penali che fa notare: «Bonafede renderà conto in Parlamento, ma sarebbe grave se Di Matteo potesse evitare di rendere conto ad alcuno del suo gesto politico intenzionale e preordinato».

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