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La minoranza Pd ricatta il governo: Jobs Act nella palude

La sinistra del partito chiede aperture sull'articolo 18 per poter votare la fiducia. Il premier tira dritto, i suoi trattano. In Aula sarà guerriglia

La minoranza Pd ricatta il governo: Jobs Act nella palude

Da una parte Matteo Renzi che sfida sinistra e sindacato e fa la voce grossa contro chi «usa il lavoro per spaccare l'Italia». Dall'altra la minoranza Pd che ha bisogno di una bandierina, una concessione anche piccola che le consenta di dire di aver vinto e poi votare la fiducia.

La partita del Jobs Act è ancora aperta, e il governo vuole chiuderla prima possibile: in settimana ci dovrebbe essere una nuova conferenza dei capigruppo, e la speranza è di mandare il provvedimento in Aula alla metà del mese, e approvarlo prima della legge di Stabilità anche per avere il tempo di un secondo, rapido passaggio in Senato se ci sarà qualche modifica. Finora Renzi ha chiuso nettamente alle richieste di marcia indietro sull'articolo 18 che gli arrivano da sinistra, e ieri non si è sbilanciato neppure sul voto di fiducia: «Se serve la metteremo, se non serve no. Vedremo le tecnicalità parlamentari, ma non c'è dubbio che dal primo gennaio 2015 dovranno esserci regole nuove».

La fiducia però viene data per scontata, a Montecitorio: non certo per problemi di numeri. «Alla Camera non ne abbiamo, e se Civati, D'Attorre e compagnia cantante vogliono votare contro non se ne sentirà la mancanza. Anzi», dice un renziano. Il problema è l'ostruzionismo, che si scatenerà sicuramente: già le frange di minoranza del Pd promettono valanghe di emendamenti, per non parlare di Sel, e i Cinque Stelle non mancheranno certo di aggiungersi. Con le procedure ordinarie («E con la gestione d'Aula della Boldrini», aggiungono dal Pd) il pantano sarebbe assicurato, mettendo a rischio anche la Stabilità. La presidente della Camera peraltro ha già fatto capire di ritenere il Jobs Act un terreno appetibile per ritrovare un po' di protagonismo dopo mesi da desaparecida della ribalta politica, e ieri ha fatto sapere che si metterà di traverso contro i tentativi di accelerazione: «Questa è una materia seria, non mi sento di fare pressioni sulla commissione Lavoro». Il premier sa bene che ci sarà il tentativo di tenere bloccato il Parlamento sul Jobs Act mentre Fiom e Cgil si occuperanno di riempire le piazze e alimentare la protesta sociale contro la riforma del lavoro, sperando (anche nella minoranza Pd) di arrivare a un clima così infiammato da costringere il governo ad arretrare.

Per questo Renzi si attrezza a giocare abilmente di tattica, alzando l'asticella per poi concedere qualcosa agli avversari (niente più di «piccoli ritocchi cosmetici», dicono i suoi) e incassare il risultato. Scontando anche una quota di voti contrari nel suo partito, già promessi dai soliti Fassina, Civati eccetera: difficilmente influiranno sul risultato finale e non votando la fiducia, aggiunge un supporter del premier, «si metteranno fuori gioco da soli».

Sotto traccia, i «pontieri» sono al lavoro per costruire la mediazione possibile, con il vice segretario Guerini e il ministro Poletti a lavorare per il fronte renziano e il capogruppo Speranza e il presidente della Commissione Lavoro Damiano per quello della sinistra Pd. La base resta quella del testo approvato in Direzione Pd il 29 settembre, che prevedeva il mantenimento della possibilità di reintegro per «i licenziamenti ingiustificati di natura disciplinare, previa qualificazione specifica della fattispecie». «Ma la modifica va inserita nel testo della delega, non basta certo un ordine del giorno», avverte Damiano.

Anche gli Ncd alzano la voce, dal fronte opposto: sono pronti a digerire qualche correzione, purché limitata, ma attaccano con durezza la sinistra Pd e in particolare Damiano e il presidente della Commissione Bilancio Boccia, ormai schierato con Fassina, che già fa ballare il governo sulla Stabilità: «Se fanno i portavoce della minoranza Pd si dimettano da presidenti di commissione».

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