Politica

Il mio maestro imperfetto che infrangeva tutti i tabù

Il ricordo della nostra giornalista che si è formata alla scuola di Radio radicale: era coraggioso, vanitoso, spietato, sentimentale e impiccione

Il mio maestro imperfetto che infrangeva tutti i tabù

La morte è occasione di memoria. E con la morte di Pannella le memorie che tornano sono così numerose da essere fuori misura.

La cosa che colpisce nel leggere i mille ricordi e testimonianze del day after, e che credo lo renda a suo modo unico, è la quantità di incontri diversi, su terreni diversi, in occasioni diverse, su campagne diverse che ognuno porta in dote. A leggere i «coccodrilli», meno scontati e liturgici del solito, sembra che siano esistiti circa un milione di Pannella, da un capo all'altro della politica e della geografia, tenuti insieme da una coerenza dura e brillante come quella delle diverse sfaccettature di un diamante. Diamante imperfetto, come quasi tutti, con le sue incrinature e i suoi lati taglienti e a volte ingiusti, le sue cattiverie e i suoi ostinatissimi errori, ma anche eccezionalmente luminoso.

C'è l'ex terrorista nero che ricorda il «padre» che gli levò i campanelli dell'appestato e il Dalai Lama che lo ringrazia a nome dei tibetani; il leader comunista che riconosce che senza di lui il Pci sarebbe fuggito dal referendum sul divorzio e gli ebrei che lo rievocano come l'unico politico accolto al Ghetto dopo l'eccidio alla sinagoga di Roma, o per la lotta al fianco dei refuznik che volevano uscire dalla prigione comunista dell'Urss: «L'anno prossimo a Gerusalemme». Ci sono i Papi che lo incontrarono sulla fame nel mondo, le trans che lo ringraziano per la prima via d'uscita dall'orrido limbo dell'invisibilità, i detenuti che piangono dietro le sbarre che lui sapeva oltrepassare. I presidenti della Repubblica e gli accannati che, raccontava, per strada gli strillavano: «Marco, legalizzala»; e i nuovi filosofi francesi che insieme a lui ruppero il tabù dell'«interventismo umanitario». E ancora e ancora e ancora.

Le memorie personali sono speculari a quelle collettive, per chi come me lo ha incontrato da adolescente ed è cresciuta a quella scuola incasinata, rissosa, contraddittoria, allegramente e intricatamente endogamica ma dotata di una durissima disciplina interiore («calvinista», come ricorda Giuliano Ferrara, d'impronta protestante in una politica tutta permeata da un certo ipocrita lassez faire cattolico-romano) come quella pannelliana. Una scuola a volte mistica, ma pur sempre laica fino allo spasimo, che in tempi di divisioni acerrime e anche mortali come gli anni 70 e 80 costringeva a non vedere mai nell'avversario un nemico, e a fare patti anche col diavolo, con spudorata trasparenza, se serviva a raggiungere un obiettivo momentaneamente condiviso. Con una faticosa e quotidiana opera di smontaggio di ogni facile luogo comune e benpensantismo, cattolico certo, ma ancor più della sinistra, berlingueriana o extraparlamentare che fosse: contro i tabù del pacifismo e dell'antifascismo di maniera, dell'anti-craxismo e poi dell'anti-berlusconismo, del giustizialismo.

Una scuola di responsabilità costose, e di occasioni eccezionali. Che ti scaraventava neanche ventenne, con un walkie talkie in mano, a piazza Duomo ad aspettare Enzo Tortora che scendeva col casco da una vespa e andava a farsi arrestare, dopo la rinuncia all'immunità parlamentare. O ti faceva passare la notte di Natale in un carcere desolato, seduta davanti al festoso cenone allestito dai detenuti, tra l'ergastolano che ti prestava il suo golf e l'ex capo brigatista che ti spostava la sedia. Che ti portava a frequentare ed ascoltare Sciascia ma anche Vallanzasca, l'ex capo della polizia di New York convertito all'antiproibizionismo e il rabbino capo Elio Toaff, la simpatica e svampita Cicciolina e i premi Nobel trascinati a frotte Roma contro «lo sterminio per fame», Altiero Spinelli e Tony Negri; Concutelli e il sindaco della Sarajevo sotto assedio.

Iracondo e a volte spietatamente ingiusto, Pannella, ma anche capace di passare una nottata ad ascoltare i drammi sentimentali col fidanzato di turno. Oratore strepitoso e scrittore raccapricciante, coraggioso e spesso vanitoso, impiccione e curioso, nella sua smisurata ansia di onnipresenza, senza confini tra privato e politico, si ricordava ogni vicenda familiare e seguiva ogni percorso esistenziale intorno a lui. A volte d'estate suonava il campanello di casa di mia madre, a due passi dalla sua, per piazzarsi in terrazza (lui non la aveva) a prendere il sole, in mutande, tracannando gigantesche caraffe di tè freddo e chiacchierando con voce tonante. Andare in auto con lui era un incubo, non guidava ma se l'autista scendeva sotto i 180 e non superava chiunque fosse davanti lo copriva di insulti. Negli ultimi anni lo capivo poco, spesso non condividevo certe sue fissazioni e certi suoi rifiuti e chiusure e rancori, certe derive dei radicali.

Ma averlo avuto per maestro resta una grande fortuna.

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