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Con il miracolo Perestrojka salvò la Russia dall'orrore

Fu l'ultimo leader del Pcus, cercò di riformarlo e traghettò il Paese fuori dal comunismo. Ma Putin lo ha rinnegato

Con il miracolo Perestrojka Gorbaciov salvò la Russia dall'orrore

A far rivalutare Mikhail Gorbaciov ci ha pensato Vladimir Putin. L'attuale inquilino del Cremlino è la dimostrazione di quanto possa essere pericoloso il gigante russo se guidato da chi si nutre di nostalgie imperiali e revansciste. Lui, Mikhail, è riuscito invece in una specie di miracolo: chiudere una parentesi di 70 anni di comunismo e di massacri, praticamente senza colpo ferire, senza morti e senza stragi.

L'impero sovietico crollò sotto il peso delle sue inefficienze e della sua mancanza di libertà, i Paesi satelliti dell'Europa orientale ritrovarono la strada della libertà, le repubbliche sovietiche, dall'Ucraina alla Georgia, iniziarono un percorso, doloroso ma inevitabile, di indipendenza. E negli stessi, pericolosi, frangenti le bombe rimasero negli arsenali nucleari, mai in nessun momento con Gorbaciov si corse davvero il rischio di un confronto atomico. Oggi più che mai il mondo è in grado di apprezzarlo e di valutare i suoi meriti.

Sono gli stessi meriti che la Russia non gli ha mai perdonato. La «più grande catastrofe geopolitica del XX secolo», come l'ha definita Vladimir Putin, la fine dell'Urss, ha lasciato nell'animo dei cittadini ex sovietici una ferita che ancora oggi si fa sentire. Travolto dal tentato colpo di Stato della vecchia guardia comunista, superato da un Boris Eltsin molto meglio di lui in grado di interpretare i tempi nuovi del nazionalismo e della Russia degli animal spirits trionfanti, Gorbaciov finì alla svelta ai margini della vita pubblica. I tentativi di tornare in gioco si rivelarono poco più che velleitari. Seguirono anni, più o meno tutti gli anni Novanta, di violenze e di anarchia, di business criminale e di violenze, di rapace sottrazione delle risorse pubbliche. Con il comunismo sembrò implodere il cuore stesso della Russia. Lui non c'entrava o c'entrava poco. Ma per i suoi concittadini non era così. Era stato lui a far finire il vecchio mondo, con le sue rassicuranti certezze, era lui il colpevole.

Quello che in Occidente era un merito, l'immagine amichevole e alla mano, perfino la moglie Raissa, dall'aspetto elegante e raffinato, diventò per in Russia, per l'uomo della strada un limite e una colpa, un tradimento del severo galateo tipico dell'unica nomenklatura che il Paese aveva conosciuto.

Eppure di quel Paese Gorbaciov era un figlio tipico: nato in una famiglia di contadini della regione di Stavropol, nel Sud, non lontano dalle prime montagne del Cucaso, cresciuto in una casa di paglia e fango, senza acqua corrente e una fede genuina, come quella dei suoi genitori, nel futuro del socialismo. Anche lui, come uno dei suoi successori, Putin viene battezzato di nascosto, dalla madre e dalla nonna. Ma la sua carriera nel partito è senza macchia: si iscrive subito al Komsomol, l'organizzazione giovanile, poi diventa uno dei più grandi esperti di problemi agricoli del Pcus. Tra le file della dirigenza degli anni della stagnazione brezneviana, la sua forza, la sua energia, la sua modernità, fanno la differenza. In una sfilata di mummie alla Chernenko o alla Andropov, diventa l'ultima speranza di salvare il sistema.

E invece ne diventa l'affossatore. Chiude l'avventura afghana, dichiara ufficialmente fnita la dottrina Breznev che tiene nel pugno sovietico tutta l'Europa orientale. Le sue parole d'ordine, glasnost, perestroika, trasparenza, riforme, diventano slogan popolari in ogni angolo del mondo. Le sue visite ufficiali si trasformano in bagni di folla. Alla fine degli anni Ottanta viene anche in Italia, a Milano: lui e la moglie sono accolti come delle specie di rockstar. Anche dopo il tramonto politico il suo attaccamento alla Russia non cambia.

È tra gli azionisti della Novaya Gazeta, il giornale che fino all'ultimo tenta di salvare qualche spiraglio di democrazia.

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