La missione di Di Maio in Libia tra bluff e rimedi a vecchi errori

Il trattato sull'immigrazione non sarà cambiato Ma ora il governo ha capito che serve l'aiuto di Putin

La missione di Di Maio in Libia tra bluff e rimedi a vecchi errori

La missione diplomatica del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, volato ieri in Libia per incontrare sia il premier Fayez Al Serraj, sia il suo nemico generale Khalifa Haftar, è una via di mezzo tra un evidente bluff e un tentativo di rimediare a vecchi errori. Se il ministro racconterà di aver discusso con Serraj le modifiche al Memorandum sull'immigrazione, ipotizzate in una bozza inviata a Tripoli resa pubblica ieri da Avvenire, resteremo nel bluff. Qualsiasi possibilità reale di modificare quel trattato si è chiusa il 2 febbraio con il suo automatico e previsto rinnovo. Un rinnovo che il governo ha atteso passivamente ben consapevole di tradire le aspettative delle componenti del Pd e del M5S decise a chiedere maggiori garanzie sul trattamento dei migranti.

La scelta nascondeva un doppio timore. Il primo era che la discussione innescasse nuove richieste di fondi senza garantire effetti reali vista l'incapacità di Serraj di controllare le milizie. Il secondo, ben più temibile, era un'intromissione della Turchia capace di far saltare il memorandum e consegnare ad Ankara il controllo dei flussi migratori. Le ingenti forniture di armi e il trasferimento delle milizie jihadiste, arruolate in Siria sul fronte anti Haftar, hanno trasformato l'esecutivo di Tripoli in un governo fantoccio della Turchia di Recep Tayyp Erdogan. Un Erdogan che, come visto nel 2015, ha il «vizietto» di ricattare l'Europa a colpi di migranti.

In questa situazione Di Maio e tutto il governo italiano sono sostanzialmente sotto scacco. Serraj, traghettato a Tripoli nel 2016 dalla nostra Marina Militare, non è più un nostro protetto, ma paradossalmente lo strumento del potenziale ricatto turco. E lo dimostra quell'accordo sul Mediterraneo firmato da Tripoli e Ankara in base al quale la Turchia minaccia di mandare le sue fregate a bloccare le prospezioni dell'Eni nelle acque di Cipro. Dunque i colloqui di ieri tra Di Maio e Serraj sono serviti tuttalpiù a mantenere i rapporti e a rendere più difficile uno sfratto dell'Italia dalla Tripolitania per ordine del Sultano. La successiva tappa di Di Maio nella residenza di Haftar è invece più significativa in quanto accompagnata da un colloquio telefonico tra il premier Giuseppe Conte e il presidente russo Vladimir Putin. Un colloquio importante visto che il Cremlino è il vero banco della roulette libica. Un banco capace di dare le carte a molti dei contenenti, ma anche di svelare o assecondare le mosse di Erdogan sul fronte di Tripoli e quelle di Emirati ed Egitto sul versante di Haftar. Alla vigilia della Conferenza di Berlino sia Di Maio, sia Conte avevano disperso le loro forze in una serie di inutili girotondi diplomatici durante i quali avevano tralasciato l'unico viaggio cruciale, ovvero quello a Mosca. Il risultato era stato una figura da comprimari sullo scenario della Conferenza. Memore di quella lezione, Conte sembra aver capito che Putin - interessato non solo al petrolio, ma anche alla posizione strategica della Libia nel Nord Africa è uno dei pochi attori decisi - come l'Italia - a garantirne l'integrità territoriale. Un attore che potrebbe aiutarci, in ambito Onu, a incoraggiare lo scioglimento di un Governo di Unità Nazionale di Tripoli nato sotto l'egida Onu, ma diventato oggi marionetta di Erdogan.

Strapparglielo, contribuendo alla nascita di un nuovo esecutivo di unità nazionale capace di comprendere anche esponenti vicini ad Haftar, è l'unica mossa che può portare a un vero cessate il fuoco. Salvandoci dai ricatti di Ankara e restituendoci il ruolo di potenza di riferimento.

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