Monaco, blackout tedesco: Paese prigioniero di un folle

Notizie parziali, voci e paure. Un uomo solo manda la Germania nel caos. E se ad agire fosse un commando?

Monaco, blackout tedesco:  Paese prigioniero di un folle

Può un uomo solo gettare nel panico un'intera metropoli, costringerla a chiudere i battenti e gettare nella confusione polizia, unità antiterrorismo e forze di sicurezza? La domanda più inquietante, a 24 ore dalla strage di Monaco attribuita ad Alì Sonboly, uno squilibrato diciottenne di origine iraniana, è questa.

La Germania nel campo della sicurezza non è un paese qualsiasi. Dopo la strage delle Olimpiadi del 1972 vennero «inventate» le teste di cuoio, ovvero reparti di polizia addestrati ad agire con gli stessi standard delle forze speciali militari. In Germania apparati di sicurezza e reparti anti-terrorismo sono conosciuti per la precisione delle loro operazioni e per gli elevati standard di addestramento. Venerdì sera tutto questo è servito ben a poco. Per sei ore Monaco è rimasta in balia di voci confuse che hanno amplificato la reale minaccia e il senso d'insicurezza dei cittadini. Fino a mezzanotte la Baviera, la Germania e l'opinione pubblica internazionale hanno creduto prima al colpo di mano di un commando jihadista e poi all'azione d'un non meglio identificato gruppo di neo nazisti. Per sei ore una città di 1 milione e 300mila abitanti si è chiusa in un autoproclamato stato d'assedio con i cittadini in casa gli esercizi sprangati, i mezzi di trasporto inservibili. Il tutto a causa di un diciottenne armato di una sola pistola, non particolarmente addestrato e neppure particolarmente lucido.

Ma se un uomo solo, se una marionetta senza fili dal cervello annebbiato costringe Monaco a chiudere i battenti cosa potrebbe fare un vero commando formato da uomini addestrati al combattimento, armati di ben più letali kalashnikov, pronti a farsi saltare utilizzando auto bombe, giubbotti e trappole esplosive? Probabilmente nulla di più perché venerdì sera non è mancata la risposta delle forze di sicurezza. È mancata platealmente la capacità di comunicare con l'opinione pubblica, di gestire mediaticamente il terrore fornendo ai cittadini notizie semplici, certe e rassicuranti. È mancata quella forma più sofisticata di risposta alla minaccia terroristica che associa un'efficace azione mediatica alla replica armata. L'asimmetria più evidente tra il dispiegamento di polizia e la gestione mediatica dell'evento la si è raggiunta con la diffusione del filmato in cui un comune cittadino dialoga con il terrorista insultandolo e spingendolo paradossalmente a spiegare i motivi del suo insano gesto. Il fatto che un comune cittadino riesca a dialogare con il demiurgo del terrore mentre le forze deputate alla sua neutralizzazione non sanno neppure chi sia e dove si nasconda non contribuisce certo a trasmettere sicurezza e fiducia nelle forze dell'ordine.

A tutto questo si è aggiunta la notizia, completamente fuori controllo, di un commando di altre tre persone in fuga pronte a sparare ed uccidere ancora. Una notizia circolata per ore mentre il vero colpevole si era già sparato in testa e non costituiva più alcuna minaccia. Perché è successo tutto questo? Perché la Germania seguendo una pratica obsoleta, degna più di uno stato di polizia che di una moderna democrazia, ha chiesto a tv e notiziari online di non trasmettere più informazioni. Tutto questo poteva funzionare prima di internet quando i cittadini non erano abituati ad essere informati in tempo reale. Oggi la mancanza d'informazioni, il «black out» è la forma d'angoscia peggiore perché da al pubblico la sensazione di esser stata privato di una delle sue libertà, di non poter contare neppure su quel mondo parallelo chiamato rete.

Per questo nessuno governo anche nei momenti di peggiore emergenza può prescindere dal continuare ad informare distillando verità, notizie rassicuranti e comunicati in grado di far percepire la presenza dell'autorità pubblica. Altrimenti continueremo, come venerdì, a temere i terroristi anche quando sono già morti.

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