Correva l'anno 1974, era l'anno in cui una banda già circondata da un'aura di odio ma anche di ammirazione nascosta, che si definiva comunista, armata e pronta ad uccidere (e ne avrebbe uccisi di innocenti, tutti colpiti alle spalle) rapì un giudice di nome Mario Sossi, nemico giurato di quell'eversione che già nuotava nell'acquario rivoluzionario domestico dei salotti buoni milanesi sulla scia del Sessantotto. Io ero al lavoro su una Olivetti Lettera 34 e ascoltavo i notiziari con una radiolina a transistor Sharp, dorata e con una lunga antenna. I televisori erano in bianco e nero e davano i notiziari soltanto all'ora di cena. Interruppero le trasmissioni: il giudice Sossi lui, la bestia nera degli eversori era stato nientemeno che rapito.
Ci fu in giro, palpabile, un moto di ammirazione in tutta la sinistra, e poiché io allora fossi un socialista ricordo il mio sentimento di spavento e di ammirazione: questi sono dei geni diabolici, questi possono tutto, questi sfidano lo Stato. Perché allora, quando correva l'anno 1974, lo Stato c'era. E la magistratura era considerata dalle sinistre tutte, spesso con ragione, una organizzazione di destra: i magistrati arrestavano gli eversori e li sbattevano in galera, e talvolta sentendosi minacciati come nel caso del giudice Mario Sossi non facevano mistero di avere in tasca un revolver. Molti di noi ci armammo, precauzione soltanto romantica ma inutile e anzi dannosa. Allora lo Stato era una cosa chiara: era la legge e non l'interpretazione politica della legge. I terroristi della banda «XXII Marzo» si tennero Sossi per un mese, lo pestarono per pubblicare le sue foto ammaccate davanti il drappo sudicio dei loro simboli con stella, falce, martello, fucile e altra ferraglia. Di lì a due anni Bettino Craxi avrebbe conquistato all'hotel Midas di Roma la segreteria del Psi, procedendo subito all'eliminazione degli stessi simboli dalla bandiera Psi.
Fu allora che si fece chiarezza a sinistra: chi stava con chi. Sossi fu poi liberato senza che fossero state accolte le richieste di scambio dei prigionieri anche per la determinazione del procuratore generale di Genova Coco che per questo sarà poi assassinato alle spalle. Ma quel primo gesto violento, eversore, clamoroso, potente e angosciante, dette la misura del fatto che le idee si erano trasformate in armi ed era cominciato l'equivoco balletto dell'arma delle idee e dell'idea delle armi che fu la pietra sacrificale di centinaia di vittime. Sossi subì anche quel processo umano che è noto come «sindrome di Stoccolma»: l'ostaggio allaccia un rapporto anche umano con i propri carnefici succederà quattro anni dopo ad Aldo Moro prima di essere soppresso come un cane nel portabagagli di una Renault 4 rossa - anche se Sossi restò segnato da quell'esperienza e si tirò silenziosamente fuori dalla prima linea di fuoco, avendo già dato molto. Tutti i movimenti e i partiti di sinistra faticarono spesso a ritrovare la linea di confine fra legge ed eversione, lecito e illecito. Ma a quei tempi la magistratura era un corpo di servitori dello Stato silenziosi, con la schiena dritta e incutevano rispetto: non si davano alla pazza gioia mediatica e non si spacciavano per legislatori o arcani interpreti ma servi della legge.
Per questo, anche, è utile oggi onorare sia la memoria del giudice Sossi sia la memoria di un'epoca in cui lo Stato era una grande fortezza che sosteneva l'assedio di tutte le forme di eversione truccate da rivoluzione e non si lasciava intimidire, né si
proponeva di intimidire se non con lo stile dei servi della legge. Erano i tempi che oggi vanno nella fossa comune della memoria, ma di cui ricordiamo i confini netti fra bene e male, legalità e illegalità, legge e ordine.
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