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La nazione e il monopolio del patriottismo

La nazione e il monopolio del patriottismo

Voi non avete il monopolio del cuore» disse Valery Giscard d'Estaing a François Mitterrand nelle presidenziali del 1974. Vinse le elezioni. «Voi non avete il monopolio della nazione» sembra dire Emmanuel Macron a Marine Le Pen, quando contrappone al nazionalismo di lei il suo patriottismo. Vincerà a sua volta? Può darsi, però tocca un punto importante che riguarda più lui che il suo avversario. L'idea della Francia del leader del Front National la conosciamo, bella o brutta che sia, ci piaccia o no. È quella del leader di En Marche, in cammino, come dice il nome stesso del suo movimento, a non essere ancora ben chiara ai suoi chers compatriotes

Come tutte le battaglie nominalistiche, il terreno è scivoloso e nelle due settimane che ci separano dal secondo turno vedremo un fiorire di citazioni e contro-citazioni. Le più gettonate saranno quelle di Romain Gary e del dottor Johnson: «Il patriottismo è l'amore per se stessi, il nazionalismo è l'odio per gli altri» del primo; «Il patriottismo è l'ultimo rifugio delle canaglie» del secondo. Naturalmente erano entrambi nazionalisti, a dimostrazione di come si pattini sul ghiaccio. Il nazionalismo, d'altronde, nasce a sinistra, con la Rivoluzione francese, per poi finire a destra, un secolo dopo. A tenerlo nominalmente a battesimo fu l'abate Barruel, nel suo Mémoires pour servir à l'histoire du Jacobinisme: «Il nazionalismo prese il posto dell'amore generale Allora fu permesso di disprezzare gli stranieri, di ingannarli e di offenderli. Questa virtù fu chiamata patriottismo». Anche Barruel, da buon controrivoluzionario, trescava nel torbido. La distinzione fra sentimento nazionale, inteso come attaccamento alla propria patria e non in contrasto con la solidarietà fra le nazioni, e nazionalismo interpretato come egoismo nazionale e odio e/o bellicosità verso le altre nazioni, non ha fondamento, come ogni studioso di scienza della politica sa bene. È la ragion di Stato la politica a cui ogni nazione ubbidisce e, se la sicurezza è la sua ragion d'essere, la decisione di ricorrere o no alla forza è un qualcosa che trascende la volontà dei singoli governi, perché dipende dai rapporti di potere all'interno del sistema politico internazionale. Il nazionalismo, insomma, non è la degenerazione del principio nazionale ma la sua conseguenza necessaria.

Se fossimo stati fra i consiglieri di Macron, gli avremmo consigliato di usare il termine sciovinista per denigrare il suo avversario. È anch'esso francese, prende il nome dal soldato napoleonico Nicolas Chauvin, fedele all'imperatore fino all'inverosimile. Poiché dalla tragedia alla farsa il passo è breve, durante il regno di Luigi Filippo I divenne un personaggio da commedia, La cocarde tricolore. Quasi mezzo secolo dopo, al tempo della guerra russo-turca, gli inglesi inventarono qualcosa di simile e usarono in una canzonetta popolare di gusto nazionalista la parola jingoism, gingoismo, dal nome della dea giapponese Jingo. Macron, che è perfettamente bilingue, potrebbe usarli entrambi.

Il problema è dunque la nazione, ed è qui che il candidato di En Marche dovrà darsi da fare. Finora ha cercato di unificare le élites globalizzate, così come i populisti hanno cercato di unificare il popolo, ed è questa la vera svolta storica del primo turno delle presidenziali. Ma la globalizzazione felice, l'uberizzazione della società seduce senz'altro quel centrismo filloniano ancora affascinato dalla Silicon Valley, la «sinistra alla moda» e gli economisti che privatizzerebbero anche i clandestini. Ma la cosiddetta «Francia profonda» come la prenderà? Macron è un leader post-moderno e sa che la pubblica opinione, più che con i programmi si conquista con gli atteggiamenti e le formule magiche. Un'immersione patriottica potrebbe fargli bene. Ma per immergersi bisogna bagnarsi e, in qualche modo, contaminarsi.

E lui, pur essendo un teorico dell'emozione pura, è algido.

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