Potenti, feroci, certi che minacce e intimidazioni avrebbero spinto chiunque a tacere. I boss Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro, appartenenti a due storiche famiglie della 'ndrangheta di Casoleto, in provincia di Reggio Calabria, erano diventati da tempo i nuovi re della criminalità romana.
La diarchia, come ha scoperto l'indagine della Dda della Capitale e della Dia, con i procuratori aggiunti Michele Prestipino e Ilaria Calò, era al vertice di una filiale locale della 'ndrangheta, una 'ndrina con «marchio di qualità» del Sud che operava da anni all'ombra del Cupolone, occupandosi di riciclaggio di denaro, gestione di investimenti nel settore della ristorazione, fittizia intestazione di beni, estorsioni, detenzione e vendita di droga, armi comuni e armi da guerra. L'operazione «Propaggine» ieri ha portato all'arresto di 43 persone a Roma e 34 a Reggio Calabria, queste ultime appartenenti alla cosca Alvaro-Penna di Sinopoli. In manette è finito anche il sindaco di Cosoleto Antonino Gioffrè, che riveste anche la carica di vicepresidente del Parco d'Aspromonte, accusato di scambio elettorale politico-mafioso. In sostanza avrebbe favorito l'assunzione di un altro soggetto indagato.
Gli investigatori hanno scoperto che fino al settembre 2015 non esisteva una «locale» nella capitale, anche se sul territorio cittadino operavano numerosi soggetti appartenenti a famiglie della 'ndrangheta. Ma nell'estate 2015 Carzo avrebbe ricevuto dall'organo collegiale posto al vertice dell'organizzazione unitaria (la Provincia e Crimine) l'autorizzazione per costituire un struttura locale capace di operare nel cuore di Roma secondo le tradizioni di 'ndrangheta: riti, linguaggi, tipologia di reati tipici della terra d'origine. Tanto che i criminali, a chi osava ribellarsi, ricordavano: «Noi a Roma siamo una propaggine di là sotto». E ancora «siamo una carovana per fare la guerra» o «dietro di me c'è una nave». E le vittime non denunciavano per paura. Così il gruppo è riuscito a mettere le mani sul business della ristorazione, dal settore ittico alla pasticceria, reinvestendo fiumi di denaro di provenienza illecita ottenuti dalla «casa madre» in Calabria insieme al via libera ad operare con i metodi tipici delle cosche. Interessi consistenti anche nel ritiro delle pelli e degli olii esausti.
Al boss Alvaro spettavano i compiti di pianificazione delle azioni delittuose, era il punto di riferimento quando le cosche volevano investire a Roma e manteneva anche i contatti con personaggi di vertice di altri gruppi, tra cui Terenzio Fasciani, dell'omonimo clan, che usava per riscuotere crediti delle attività commerciali fittiziamente intestate. In carcere sono finiti Carmelo Alvaro, detto «Bin Laden», Carmine Alvaro, detto «u cuvertuni», ritenuto il capo locale di Sinopoli e i capi locale di Cosoleto Francesco Alvaro detto «ciccio testazza», Antonio Alvaro detto «u massaru», Nicola Alvaro detto «u beccausu» e Domenico Carzo detto «scarpacotta». In manette anche diversi professionisti, tra cui un commercialista e un dipendente di una banca.
A Roma sono invece scattati i sigilli per il ristorante Binario 96, controllato dalla società Station Food, il Derby Bar di via Malatesta, il panificio Zio Melo, che fa capo all'omonima Zio Melo. Nei guai sono finiti altri esercizi commerciali capitolini.
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