Disprezzo. Anzi, di più: odio vero, profondo, totale. «Non ho mai messo un veto su di lui», sostiene candido Matteo Renzi. Infatti sopra al premier vorrebbe metterci una bella pietra, pesante. «È imbarazzante». Ma nemmeno Giuseppe Conte la tocca piano. «Lo devo asfaltare». Chi vincerà? Il primo round è finito in pareggio: il governo non è caduto però traballa assai ed è lontano dalla salvezza. Il secondo si combatterà la prossima settimana e uno solo resterà in piedi. Non si tratta di una questione personale, dicono entrambi. E hanno ragione, perché di là delle differenze, dell'incompatibilità di carattere tra il Frenatore e il Rottamatore, la questione è politica: Renzi e Conte si contendono la stessa area, il centro, e se il presidente del Consiglio riuscirà a costruire un suo partito, per Italia Viva lo spazio si ridurrà ancora.
Il duello rusticano continua, o l'uno o l'altro, non c'è posto per tutti e due. Questa del resto non è una novità, il Belpaese ha già vissuto scontri simili. Negli anni Cinquanta, nel pieno della guerra fredda, Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti si sfidavano a viso aperto, senza esclusione di colpi. Lì però la situazione era chiara e i campi ben definiti. Comunisti e anticomunisti, USA o URSS, di qua o di là. Nessuna gelosia o antipatia: il segretario della Dc e il leader del Bottegone si combattevano e si stimavano. Semmai era Pietro Nenni, il terzo incomodo, a smaniare.
Niente, rispetto alla rivalità completa, qualche tempo più tardi, tra i due cavalli di razza della Democrazia Cristiana. Amintore Fanfani e Aldo Moro aravano lo stesso orto, avevano la stessa formazione cattolico-sociale riformista, nutrivano lo stesso progetto, aprire al Psi. Furono loro gli artefici della nascita del primo governo di centrosinistra. Avevano anche lo stesso obbiettivo, diventare presidenti della Repubblica: dopo aver collezionato ministeri, governi e segreterie a Piazza del Gesù, quale migliore conclusione di carriera se non il Quirinale? Peccato che il provenire dalla stessa area, la sinistra dc, non li aiutasse, senza parlare delle notti dei lunghi coltelli che hanno sempre segnato l'elezione al Soglio. La prima volta fu Moro a stoppare Fanfani, spianando la strada a Giuseppe Saragat. Sette anni dopo si ostacolarono a vicenda. Così i due cavalli di razza rimasero al palo, bruciati dai franchi tiratori, e sul Colle sali a sorpresa l'outsider Giovanni Leone.
Negli anni Ottanta la scena politica fu dominata dal braccio di ferro infinito duello tra Bettino Craxi e Ciriaco De Mita. Il milanese dai modi spicci e dagli slogan efficaci che voleva svecchiare la sinistra contro l'avellinese che parlava per difficili iperboli e che intendeva aprire un «nuovo corso» a piazza del Gesù. Erano nella stessa maggioranza, i leader delle due principali forze della coalizione, però erano troppo diversi per intendersi. E troppo differenti i loro progetti politici: Bettino voleva ridimensionare Botteghe Oscure e prendere le redini di una sinistra riformista, Ciriaco invece strinse un'intesa con Enrico Berlinguer per contenere le ambizioni del Psi. Un conflitto lungo e aspro, dalle alterne vicende. De Mita fu il primo democristiano a strappare il doppio incarico, guidando partito e governo. Craxi riuscì invece a battere il record di durata a Palazzo Chigi.
Poi fu la volta della guerra, dura ma mai dichiarata, tra Massimo D'Alema e Walter Veltroni. Il centro-sinistra con il trattino contro il centrosinistra senza. La capacità di allearsi contro la vocazione maggioritaria. La battuta acida contro il buonismo esasperato. I due Dioscuri, così li hanno chiamati, si sono alternati alla segreteria del Pds, Ds, Pd. Veltroni ha sfiorato Palazzo Chigi, D'Alema ci è arrivato dopo aver silurato Romano Prodi.
Ora fanno i padri nobili ma, mentre Walter tiene un basso profilo sperando, hai visto mai, nel Colle, Baffino è tornato a galla, indovinate un po', come suggeritore di Conte. E qui il cerchio si chiude, perché se c'è uno che odia Renzi più del premier, quello si chiama Massimo D'Alema.
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