
Una delle massime più famose della prima Repubblica attribuita a Rino Formica recitava: "La politica è sangue e merda". Un'immagine cruda ma efficace per spiegare che la ricerca del consenso, da che mondo è mondo, richiede compromessi e non rituali angelici. È la logica della democrazia dove votano tutti, belli e brutti, e i voti hanno tutti lo stesso valore. Ora il dibattito estivo nel Pd - e più in generale nel centro-sinistra - che ha accompagnato il laborioso varo delle liste regionali per alcuni versi ha assunto accenti pittoreschi.
Prima è stato messo sul banco degli imputati il governatore Vincenzo De Luca (nella foto), reo come il suo collega veneto, il leghista Luca Zaia, di avere l'ambizione di ricandidarsi. Il "no" della Consulta al terzo mandato da una parte ha risolto il problema, ma per altri versi lo ha complicato: ha liquidato per legge il diritto del governatore a candidarsi, ma per risolvere il caso ha messo in piedi un meccanismo infernale per cui, per avere il consenso del padre, la Schlein ha dovuto accettare la nomina del figlio (Piero) come segretario regionale del Pd in un congresso in cui ci sarà un solo nome in lizza, il suo; e, per sedare i suoi oppositori, Sandro Ruotolo e Marco Sarracino, ha dovuto concedere loro le segreterie cittadine del partito a Napoli e a Caserta. Un organigramma deciso tutto a tavolino, nelle segrete stanze di partito, alla faccia del consenso e della democrazia.
Più o meno ciò che sta accadendo in Puglia, dove Antonio Decaro minaccia di non candidarsi se alle elezioni si presenteranno per il Consiglio regionale anche l'attuale governatore Michele Emiliano e l'ex Niki Vendola. Io non nutro particolari simpatie per i due personaggi, ma si pretende di farli fuori entrambi non sulla base del consenso, ma di un'intesa calata dall'alto. Che abbiano fan, simpatie e voti non conta. Anzi, paradossalmente, in questa logica avere consenso li rende ingombranti. Il consenso in questo schema si trasforma quasi in un delitto di lesa maestà.
Ora, un partito può decidere le sue regole, le sue liturgie, i suoi meccanismi. È nelle cose. Solo che risalta una contraddizione di non poco conto: il Pd è il partito che fino a ieri ha deciso tutto con le primarie, cioè sulla base del consenso, anche il portiere di notte della sede a largo del Nazareno. L'esempio più eclatante è che nell'ultimo congresso gli iscritti elessero segretario Stefano Bonaccini, ma il risultato fu ribaltato dal voto delle primarie, che impose la Schlein.
La logica che si sta imponendo ora, invece, è l'esatto contrario. De Luca padre viene fatto fuori, con il concorso del Pd, "ex lege"; il figlio e i suoi oppositori vengono nominati nei rispettivi ruoli per decreto di partito. E ancora Emiliano e Vendola forse non potranno aspirare al ruolo di consigliere regionale non perché non hanno i voti, ma perché ne hanno troppi e disturbano il candidato governatore. Nella prima Repubblica, con le sue regole, queste dispute venivano risolte a suon di voti. Magari attraverso le preferenze, le liste, i congressi: erano i cittadini a decidere le gerarchie politiche.
Appunto, era "il sangue", il consenso che selezionava la classe dirigente o imponeva i rinnovamenti generazionali. Ora tutto è demandato alle segrete stanze e ai corridoi. Del binomio formichiano, è rimasta solo la seconda parte.