Parla come l'autentico erede di Mandela: ha resuscitato il concetto di nazione arcobaleno, si batte per una convivenza pacifica tra le varie razze, esclude nazionalizzazioni, espropri e altri provvedimenti di stampo statalista. Il paradosso è che Mmusi Maimane, 36 anni e due lauree, non è a capo dell'ANC, il partito del compianto primo presidente che ha guidato la lotta contro il vecchio regime e governa dal 1994, ma di Alleanza democratica (DA), che fino a poco tempo era sostenuta soprattutto dai bianchi, dai «colorati» (come vengono chiamati in Sudafrica gli individui di razza mista), dagli indiani e solo dal 6% della maggioranza nera.
Ma dopo le elezioni amministrative del mese scorso, che hanno visto la vittoria della DA non solo nella sua vecchia roccaforte di Città del Capo, lo status di Maimane è radicalmente cambiato: si parla molto meno di lui come del «fantoccio dei bianchi» del «nero in affitto» o dello «scagnozzo dei capitalisti», come gli avversari lo definivano quando l'anno scorso venne eletto a sorpresa leader di Alleanza democratica con il 90% dei voti, ma piuttosto come di un futuro presidente della Repubblica: forse non nel 2019, perché l'ANC continua a dominare le zone rurali, ma probabilmente nel 2024, quando tra i neri prevarranno i giovani nati dopo la caduta dell'apartheid che non hanno più il culto del «partito della liberazione» e sono sempre più delusi dalla sua corruzione, dal suo familismo e dalla sua incapacità a governare. Se davvero la minoranza bianca, sia pure sotto la guida di un nero, tornasse al timone del Paese, sarebbe un'autentica rivoluzione per l'Africa intera.
Maimane è nato a Soweto, ghetto nero alle porte di Johannesburg e ha frequentato una scuola privata cattolica prima di andare all'Università. Da studente si iscrisse, come tutti i giovani della sua generazione, all'ANC. Ma verso la trentina, disgustato dal comportamento del partito e soprattutto del presidente Zuma, ne uscì e si avvicinò ad Alleanza democratica, nato dalle costole di un partito liberale di opposizione all'apartheid. Quando la leader Helen Zille si decise a sfidare l'ANC a livello nazionale, si rese conto che, per sfondare in un elettorato per l'80% nero, doveva passare a un nero le redini del comando; e dopo vari tentativi non riusciti, decise di affidarsi a Maimane, soprannominato «l'Obama di Soweto», dotato di quel carisma e di quelle doti oratorie indispensabili per fare strada nella politica africana. Poiché ha una moglie bianca, insegnante di scuola media e di conseguenza due figli «colorati», poteva costituire anche un ponte ideale tra le varie etnie. Il giovane non li ha delusi. Nell'ultima tornata elettorale ha conseguito risultati anche superiori alle aspettative ed è riuscito a fare breccia nella nuova classe media nera che si vuole un cambio di dirigenza per uscire dalla crisi economica in cui il Paese si dibatte.
Lo slogan più usato da Maimane è stato: «Per salvare il Paese non serve un partito nero, ma un partito sudafricano in grado di attrarre i voti di tutti i sudafricani». La cosa è tanto più vera, in quanto a 22 anni dalla fine dell'apartheid i bianchi hanno ancora in mano le principali leve dell'economia e forniscono quel quantum di esperienza e competenza indispensabile per mandare avanti un Sudafrica che, nonostante le attuali vacche magre, continua a far parte dei BRICS. Purtroppo per Maimane, non tutti ci credono e si illudono invece che, espropriando i bianchi delle loro terre e del loro residuo, ma tuttora consistente potere, l'enorme gap sociale che ancora divide le due razze possa essere colmato più facilmente.
Se riuscirà a convincere la maggioranza degli elettori che non è così, Maimane, pur provenendo per così dire dalla sponda opposta, diventerà davvero il legittimo erede del «padre della patria», i cui ideali sono stati troppo spesso traditi dai suoi successori.
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