Nessun alibi, nessuna scusa. Deve essere stata una doccia fredda la sentenza dei giudici che hanno detto no al figlio che - abituato ad un certo tentore di vita- chiedeva di poter mantenere gli stessi agi garantiti da un padre dallo stipendio piuttosto robusto. E invece, il figlio maggiorenne che non ha raggiunto l'autosufficienza economica per la propria «inerzia» non ha diritto a ricevere dal padre divorziato l'assegno di mantenimento che gli permetta di avvicinarsi a un tenore di vita simile a quello che conduceva la famiglia prima della separazione. È su questo principio che il tribunale di Torino ha revocato il contributo di 1.500 euro al mese che un ventiquattrenne chiedeva al genitore, ex amministratore delegato di una grande azienda (ora fallita) che al momento della rottura dei legami familiari guadagnava 167.648 euro lordi all'anno.
Il giovane aveva detto che voleva riprendere gli studi (interrotti nel 2013 in quarta liceo) e che aveva un'abilitazione di personal trainer di primo livello ma di essere sostanzialmente disoccupato.
I giudici della settima sezione civile hanno esaminato il caso e hanno concluso che nel tempo «è passato da un'attività all'altra senza soffermarsi in modo serio e continuativo su una sola di esse che
gli consentisse quanto meno un inizio di autonomia». Non avendo dimostrato che «l'impossibilità di intraprendere un percorso lavorativo serio si è verificata per ragioni a lui non imputabili», non può ricevere l'assegno.
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