Sul suo profilo Instagram si definiva «mental illness warrior». Una guerriera del disturbo mentale. Ma anche i guerrieri pretendono il diritto di smettere di combattere. E Noa Pothoven ha scelto di deporre le armi a diciassette anni. Non si è lanciata dalla finestra, non si è tagliata le vene vedendo la vita sgocciolare dai polsi né si è imbottita di barbiturici vomitandola in forma di schiuma. Ha chiesto allo Stato, al suo Stato, di assisterla, di fornirle l'attrezzatura per congedarsi in modo igienicamente perfetto, uscendo dal nostro mondo con i documenti in regola, non da clandestina della disperazione.
Noa Pothoven aveva l'età dei brufoli e degli amori disperati, dei concerti e delle liti con la mamma per tornare più tardi, la sera, il sabato. L'età in cui la legge non le riconosceva il diritto di votare, di scegliere un deputato o un consigliere comunale; ma le ha garantito quello di fare obiezione alla vita.
Noa Pothoven era di Arnhem, nei Paesi Bassi. Un Paese che consente a un giudice di accordare l'eutanasia a partire dai 12 anni di età, ma solo dopo che un medico abbia certificato che la sofferenza del paziente è insopportabile e senza via di uscita. E Noa sentiva di non esistere più, di «respirare ma non essere viva», dopo una serie di violenze subite quando era ragazzina. Le aveva raccontate nell'autobiografia dal titolo «Winnen of leren» (vincere o imparare): un primo stupro a 11 anni nel corso della festa di un'amica, poi un altro, quindi a 14 anni una aggressione in strada da parte di due uomini. Abbastanza per farla uscire dal proprio corpo una volta per tutte, per condannarla a un grave stress post-traumatico, a disturbi dell'alimentazione, a un sorriso sempre triste e spento, a una gioia da contratto, nelle foto postate su Instagram, dove era @noamaestro ed esibiva il simulacro di una vita normale: con le amiche, con due giocatori del Vitesse, la squadra locale, con un cane, su un cavallo, con il suo libro, a una festa spesso con un tubicino appiccicato alla sua guancia sinistra con un cerotto, che le finiva in bocca. In alcune di queste foto la messinscena sembra quasi riuscire, pensa te.
Invece no. Noa è morta domenica nel letto di casa, con sua madrea accanto, l'assistenza medica fornita da una clinica specializzata. Qualche giorno prima aveva spoilerato il finale della storia in un post su Instagram: «Vado dritta al punto: entro massimo 10 giorni morirò. Dopo anni di lotte, la lotta è finita. Ho smesso di mangiare e di bere e dopo difficili confronti è stato deciso che potrò morire perché la mia sofferenza è insopportabile».
Le domande che la vicenda di Noa pone non si possono evitare. Ti vengono a cercare, ti perquisiscono. Vanno oltre le tue idee politiche, la robustezza della tua fede, il posto in cui collochi la libertà nella classifica dei tuoi santini. Se il suicidio di un giovane ti raggela, un suicidio a norma di legge ti spinge ad aprire il traduttore simultaneo dei sentimenti ignoti. Lo Stato può amministrare la morte, gestirla come fosse una manovra finanziaria? Può un suo funzionario mettere il timbro sul visto per qualsiasi luogo ci sia dopo la morte? Fino a che punto deve chiedere al suo cittadino di pensarci e ripensarci?
Non abbiamo verità, lo diciamo sommessamente. Non ci sono risposte abbastanza grosse da contenere domande così vaste. Qui non siamo di fronte a un malato terminale, a un'esistenza da vegetale concepibile solo in forma di miracolo. Siamo di fronte a una adolescente bella e intelligente ma svuotata dentro. Invidiamo chi di certezze da contrabbandare ne ha.
Però. Però crediamo che lo Stato possa controfirmare il suicidio di una minorenne solo dopo essersi interrogato se ha fatto davvero tutto quello che poteva per tirare fuori una giovane cittadina dall'abisso in cui era caduta ed essersi rispoto: sì. Speriamo i Paesi Bassi lo abbiano fatto.
E crediamo poi che non esistano scorciatoie per viaggi così lunghi e che nessuno debba pensare che morire sia la strada più facile.
Addio, Noa, addio.
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