Maurizio Lupi ha dato le dimissioni da ministro perché sono emersi, attraverso le solite intercettazioni telefoniche pubblicate dai media, alcuni suoi comportamenti nella zona grigia delle relazioni interpersonali. Comportamenti tipici di chi vive fra gli altri - dove non è sempre chiaramente distinguibile, e separabile, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, il bene e il male - e che diventano facilmente oggetto di moralismi, per non dire di speculazioni politiche. Soprattutto in un Paese come il nostro, popolato da moralisti privi di senso della realtà, se non di moralità.
Lupi, come ministro, non ha commesso scorrettezze giudiziariamente perseguibili, né politicamente e moralmente condannabili. Non è neppure indagato. È, se mai, proprio volendo metterla giù dura, responsabile di comportamenti ritenuti, secondo il giudizio comune, poco consoni da parte di un ministro o, comunque, di un uomo pubblico: l'accettazione di un orologio regalato al figlio per il conseguimento della laurea da chi aveva a che fare col ministero del padre, un biglietto aereo alla moglie che avrebbe probabilmente partecipato ad un convegno del coniuge. Che, poi, il presidente del Consiglio non lo abbia pubblicamente né difeso, né invitato a dimettersi, ma abbia permesso, lasciandone la decisione all'interessato, l'esplosione di fatto di una forma di cannibalismo nei suoi confronti - attraverso la caccia al ministero che Lupi lascia - è un miserabile caso di opportunismo e di cinismonon sorprendente da parte del ragazzotto fiorentino.
Le dimissioni di Lupi dovrebbero, perciò, essere l'occasione per una riflessione sulle campagne moralistiche che, di tanto in tanto, scoppiano nel nostro Paese. Chiunque appartenga a una comunità opera in una zona grigia che, realisticamente, dovrebbe essere lasciata nell'ambito dell'ordine delle cose. L'accettazione di un regalo non è un comportamento scorretto, né, tanto meno, un reato. Farne oggetto di una campagna mediatica è un errore nel quale cade sempre più spesso e facilmente un sistema informativo che compensa l'incapacità di fare il proprio mestiere con il facile scandalismo e il moralismo di bocca buona. Bisognerebbe saper distinguere, e separare, ciò che è consuetudinariamente peculiare della zona grigia da ciò che attiene alla correttezza individuale. Non credo esista professionista che non abbia goduto di una segnalazione, per non dire di una qualche raccomandazione, agli inizi della propria carriera. È, poi, la vita, che promuove i migliori e condanna i peggiori, indipendentemente persino dai loro meriti, o demeriti, personali. La segnalazione e persino la raccomandazione sono dati di fatto che non hanno caratterizzazione morale in una società di relazioni. Sono la logica conseguenza del vivere in società. Farne oggetto di giudizio morale è sbagliato, perché irrealistico, ed è molto opinabile perché frutto di una opinione che, assai poco realisticamente, tende a far prevalere il facile moralismo sul difficile giudizio di merito. L'Italia è spesso accusata di non premiare il merito. Ebbene, la segnalazione e persino la raccomandazione sono già, pregiudizialmente, il riconoscimento di un merito che altrimenti rimarrebbe sconosciuto. Sono una forma di informazione soggetta al giudizio successivo da parte di chi accoglie l'una o l'altra. Come tutti i fatti empirici, spremendoli, non producono conseguenze morali, ma solo conseguenze di fatto: sarà la vita a decretare chi risulterà il migliore!
La cultura di sinistra - che tende ad assegnare a se stessa, rispetto all'avversario politico, un primato morale - ha sostituito alla
capacità di direzione politica il pregiudizio moralistico, inquinando il modo di pensare del Paese trasformato in un cimitero di sepolcri imbiancati. Sarebbe ora di rifletterci e di smetterla.piero.ostellino@ilgiornale.it
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