Quando Andreana Bassanetti arrivò a perdifiato in fondo alla rampa del garage, inseguita dal portinaio che le era corso incontro sconvolto all'uscita dell'ascensore, sua figlia giaceva composta per terra, gli occhi chiusi e un braccio sotto la testa, come succede quando si dorme proni. Nonostante in quel punto l'asfalto fosse parecchio sconnesso, il corpo non presentava escoriazioni. Dopo essere volata giù dal sesto piano, Camilla aveva ancora ai piedi, incredibilmente, le sue ciabattine di spugna di una taglia più larghe, le stesse che spesso si sfilavano camminando per casa. Sul viso, sulle braccia, sulle gambe, sui calzoncini bianchi, sulla Lacoste azzurra e tutt'intorno, neppure una macchiolina di sangue. «Fu un miracolo, era stata appoggiata con delicatezza sulla strada come un'offerta sacra immolata sull'altare», racconta la madre. «La chiamai. Pensavo che dovesse solo svegliarsi. Notai un movimento delle labbra, un leggero sorriso. È ancora viva, dissi ai soccorritori. Infatti morì per le lesioni interne mentre la trasportavano in ospedale».
Sono trascorsi 24 anni da quel 27 giugno 1991 in cui la figlia si gettò dal balcone. A mamma Andreana rimbombano ancora nella testa le ultime parole pronunciate da Camilla pochi istanti prima della tragedia: «Aspetta tre giorni»; una frase indecifrabile, che anni dopo ha ricollegato in una prospettiva di fede allo spazio di tempo intercorrente fra la Passione e la Resurrezione. «Allora non potevo arrivarci. Credevo di trovare consolazione solo in un passo del Nome della rosa di Umberto Eco, che andavo ripetendo con sufficienza e compiacimento: “L'aldilà esiste per quelli che non hanno l'aldiquà”».
Camilla non aveva alcun motivo apparente per buttarsi nel vuoto a 21 anni. Era una fanciulla solare, generosa e di una bellezza abbagliante, come testimoniano le foto incorniciate in questa casa borghese a ridosso dello stadio di Parma; amata dai genitori e dal fratello Paolo, nato 15 mesi dopo di lei; reduce da un anno di studi in Gran Bretagna per imparare l'inglese e da un altro passato alla St. Stephen's school di Roma, esclusivo liceo internazionale frequentato da studenti di 33 nazionalità. Ed è un dramma nel dramma che non sia riuscita a salvarla dalla depressione e dal suicidio proprio la persona a lei più vicina e anche quella maggiormente attrezzata, in teoria, ad aiutarla: la mamma. Perché si dà il caso che Andreana Bassanetti sia una psicologa e una psicoterapeuta, seguace di Sigmund Freud, passata attraverso la psicanalisi prima di specializzarsi in psicologia clinica, per sette anni dedita a dissociati mentali, ossessivi, anoressiche e tossicomani nella clinica psichiatrica Maria Luigia di Parma. Aveva tutti gli strumenti per assistere la figlia: per 35 anni ha tenuto in terapia centinaia di ragazzi della stessa età; è esperta in psicoterapia per coppie e famiglie; pratica l'ipnosi; ha studiato sessuologia a Ginevra e terapie del corpo e bioenergetica a New York. Non le sono serviti a nulla.
Però, da quando la sua Camilla s'è tolta la vita, Andreana Bassanetti ha trovato il modo per rendersi utile agli altri. Ha incontrato oltre 60.000 genitori oppressi dal più incurabile dei mali, lo stesso che ha colpito lei: la disperazione di sopravvivere ai loro figli, morti suicidi, morti di malattia, morti in incidenti stradali, morti sul lavoro, morti per droga, morti per fatti di terrorismo o di criminalità comune, morti scalando una montagna o giocando una partita di calcio, morti in vacanza o all'improvviso nel loro letto, morti in uno dei tanti modi che la vita escogita per abbandonarti quando meno te l'aspetti. «È consolante vedere che smettono di piangere per infondere coraggio e speranza in altri genitori colpiti da un lutto più recente del loro», assicura la fondatrice di Figli in Cielo, associazione privata di laici riconosciuta dalla Chiesa, presente in 137 diocesi italiane ma anche in Brasile, Argentina, Canada, Stati Uniti, Germania, Francia, Svezia, Olanda, Spagna.
Che figlia era Camilla?
«Stupenda, meravigliosa. Dopo la morte, ho letto nel suo diario: “Sono arrivata a 21 anni senza mai offendere nessuno”. Può vivere una ragazza così? Io la spronavo: difenditi. Mi rispondeva: “Non voglio”. S'è fatta carico di tutto il dolore del mondo».
Che mestiere avrebbe voluto fare?
«La psicologa. Mi ero trasferita a Roma per starle vicino negli studi. Purtroppo nel nostro palazzo abitava un quarantenne che lavorava per i servizi segreti. Camilla all'epoca aveva 16 anni. Non camminava: fluttuava nell'aria. Era impossibile non notarla. Un giorno si ritrovò quel tizio losco ad attenderla all'uscita di scuola. Andai a denunciarlo in questura. Il funzionario che raccolse la mia querela fu trasferito altrove. Presi ancora più paura e decisi di tornare in Emilia. Primo errore».
In che senso?
«Camilla soffrì moltissimo nel lasciare la St. Stephen's school. Il giorno del suo 18° compleanno ebbi una chiara avvisaglia del disagio mentale. Da remissiva era diventata all'improvviso rancorosa. Ce l'aveva con l'umanità intera. Cominciò a mangiare meno, a rinchiudersi in sé stessa. Le proposi di ritrasferirci a Roma. Ma era già troppo tardi».
Si è ritrovata in casa una paziente.
«Come il chirurgo che non vuole operare i suoi cari per paura di far loro del male, decisi di affidarla a un collega che lavorava in clinica con me. Secondo errore. Ne scelsi uno stimatissimo, tutto casa e chiesa. La terapia di gruppo parve funzionare. Senonché Camilla, in un impeto spontaneo, un giorno lo abbracciò per esternargli la propria gratitudine. E lui che fece? Tentò di baciarla. Io lo venni a sapere dopo un anno. Mia figlia avrà pensato: nelle mani di chi mi ha messo mia madre? Le proposi: andiamo a chiarirci. Non volle».
E dunque?
«Lo affrontai da sola. Ebbi la tentazione di fracassargli il cranio con un posacenere. Poi presi a studiare gli orari in cui calava la nebbia per ammazzarlo a rivoltellate. Vedere soffrire un figlio senza poter fare nulla è peggio che piangerlo morto. Tutto quello che avevo evitato agli altri, si ritorceva contro Camilla. Senza colpa di nessuno, cambiò dieci terapeuti. Da non credente pensavo: se esiste un dio, è di sicuro un sadico».
So che sua figlia scrisse nel proprio diario: «Dovrei essere felice, non mi manca nulla, invece sento la morte nel cuore. In casa sto male, fuori sto male, tutti mi sono contro, anche Dio mi ha abbandonata».
«L'ho letto a tragedia avvenuta. Sono stata troppo discreta. Avrei dovuto violare la sua privacy. Non sapevo come sostenerla. Un pomeriggio tremendo del 1990 la trovai aggrappata al muretto esterno del balcone, con i piedi sulla grondaia. Stetti sei ore a trattenerla per un braccio, prima di convincerla a rientrare. Non so chi mi diede la forza. Nel giugno dell'anno seguente, alla prima uscita dopo le cure, in una discoteca rivide un ragazzo per cui nutriva un forte sentimento: ballava con un'altra. Camilla ebbe uno svenimento. Tre giorni dopo si buttò dal sesto piano».
Che cosa ricorda di quel giorno?
«Vivevamo in un attico mansardato immenso, con sette balconi. Il termometro sfiorava i 40 gradi. All'alba dalla coltre di umidità spuntavano solo i campanili di Parma. Le dissi: guarda che meraviglia! Ebbi la netta percezione che sorridesse a qualcuno in lontananza, non so a chi. Mi fermai un attimo a depositare in lavanderia lenzuola e indumenti fradici di sudore. Pensai che Camilla m'avesse preceduto in cucina per la colazione, ma lì non la trovai. La cercai nelle altre stanze. Non c'era più».
Come reagì al suicidio?
«Mi allontanai dai miei colleghi: non avevano più niente da dirmi. Occuparsi del lutto? Elaborare il lutto? Che frasi stolide! Dopo 35 anni di psicoterapia, io ero sotto terra con mia figlia. Non vale nulla la psicologia di fronte alla morte, nulla. Una mamma vuol sapere se sua figlia c'è o non c'è. E voi pretendete di dire a un genitore come deve comportarsi dopo questa catastrofe? L'avete vissuto, voi, il lutto? Abbraccia un mistero che va oltre il presente. Ma la psicologia si ferma all'uomo qui e ora, non si pone gli interrogativi ultimi. Dovrebbe almeno avere l'umiltà d'indagare: 50 per cento di probabilità che ci sia qualcosa, di là, e 50 che non ci sia nulla. Ogni ricerca seria si fa così».
S'è colpevolizzata per non essere riuscita, da psicoterapeuta, a capire il disagio profondo di sua figlia?
«È stato il mio pane quotidiano. Ancor oggi, quando un paziente si risolleva dopo una mia frase, mi chiedo: ma questo l'ho detto a Camilla? Mi sono arresa a un mistero che è più grande di me: qualsiasi cosa ingiusta abbia fatto, è stato un errore, non una colpa. Tutte le mamme del mondo sbagliano».
Il guaio dei giovani che soffrono di qualche disagio è che non vogliono parlarne con i genitori, né tantomeno con uno psicologo.
«Bisogna trovare il modo di entrare nei loro pensieri attraverso gli amici più vicini. Un genitore va sulla luna in ginocchio pur di salvare suo figlio. Mi capita di leggere i diari di questi ragazzi. Sono persone meravigliose, intelligenti, mistiche, schiacciate dalla superficialità del mondo. Diventano materiale di scarto, per questa società. Non sei vincente? Fuori! Non sei competitivo? Fuori! Non sei griffato? Fuori!».
È mai stata tentata di suicidarsi anche lei, dopo la morte di Camilla?
«No. E l'altro figlio? Non potevo lasciarlo solo. Anche se in molte situazioni faticose avrei voluto non esserci».
Circa 3.000 suicidi l'anno, quasi altrettanti i tentativi non denunciati. Perché tanti giovani cadono in quella condizione definita hopeless , senza speranza?
«Posso dirlo? Manca Dio. Il senso della vita. Tutto quanto il nostro animo desidera nel modo più profondo e più totale. Non c'è, non si sa dove andarlo a trovare. Camilla era morta e la psicologia non aveva i mezzi per soccorrermi. Cominciai a graffiare i muri dei sette balconi con una spazzola di ferro. Scaricavo la rabbia e la ribellione grattando via l'intonaco. Presi a farlo anche nelle stanze. Non finivo mai, volevo distruggermi. Poi per 15 giorni rimasi immobile a letto. Non riuscivo più ad alzarmi».
Chi la rialzò?
«Il medico che mi costrinse d'imperio, una sera di novembre, a uscire di casa. M'incamminai verso la periferia. Ero spossata. Vidi una chiesa in lontananza: per me solo un luogo dove sedermi su una panca a rifiatare. Ma il Signore era lì ad aspettarmi. All'ingresso lessi una frase: “Venite in disparte”. Allora non sapevo che è nel Vangelo di Marco. Gesù si rivolge agli apostoli: “Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po'...”. Sembrava scritta per me. Mi trapassò. Non capivo quello che mi stava accadendo. Era tutto buio, tranne una cappellina laterale: un gruppo di ragazze in ginocchio stava adorando il Santissimo. Nei loro volti radiosi lessi la speranza di un oltre. Ricordo d'essermi rimproverata: se avessi portato qui Camilla, quanto bene avrebbe ricevuto! Non mi sentivo più stanca».
Ma ai genitori atei che perdono un figlio lei che aiuto può offrire?
«Posso firmargli una cambiale in bianco: non sprecate una sofferenza così grande, apritevi al mistero che la morte porta con sé, e la Verità vi verrà incontro.Il dolore ha un suo tempo: dalle 12 alle 15. Ce l'ha insegnato Gesù sul Golgota».
Molti cercano di parlare con i figli defunti rivolgendosi agli occultisti.
«Purtroppo. Il principale punto d'incontro si trova proprio qui in Emilia. Organizzano persino voli charter per andare a imparare la “scrittura automatica” in Gran Bretagna. Le sensitive distribuiscono, a 40 euro l'uno, i messaggi che i figli morti detterebbero loro dall'aldilà. Il pizzino non ti soddisfa? Entri nella stanza accanto, paghi e un'altra medium te ne consegna uno diverso».
Da quando esiste Figli in Cielo, quale storia l'ha più colpita?
«A Natale è venuta a trovarmi da Stoccolma una famiglia svedese. Ha vissuto per filo e per segno la mia stessa tragedia. Ora è divenuta più prossima del mio prossimo. Ci lega un vincolo talmente forte da andare oltre le nostre persone, pensato dall'eternità per l'eternità».
Lei sente la presenza di Camilla?
«Camilla è in Dio. Più rafforzo la presenza di Dio e più Camilla è viva in me. Si chiama comunione dei santi».
Vorrebbe ricongiungersi a lei?
«Non vedo l'ora. Se proprio andrà male, dovrò aspettare altri 20 anni».
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