«Ma che giustizia è mai questa. Sono arrabbiatissimo. La Severino è una legge senza senso, incostituzionale. Ma le pare che io posso continuare a fare il deputato, il membro della commissione di vigilanza della Rai, potrei fare il ministro e anche il presidente del Consiglio: ma non posso più fare il sindaco della mia città. Pazzesco».
Riccardo Tiramani, leghista, trentacinque anni, onorevole leghista e fino a ieri sindaco di Borgosesia, ha un diavolo per ogni pelo della folta barba. Ieri mattina in municipio è arrivato l'inviato del Prefetto di Vercelli e ha comunicato che con effetto immediato il primo cittadino è sospeso dal servizio.
È l'effetto della sentenza che il 28 luglio scorso lo ha condannato a un anno e cinque mesi di carcere per peculato, a conclusione del processo d'appello per i rimborsi ai consiglieri regionali del Piemonte. In primo grado, Tiramani e quasi tutti gli altri imputati erano stati assolti «perché il fatto non sussiste». In appello, il ribaltone: tutti condannati. I giudici avevano preso tre mesi di tempo per scrivere le motivazioni della sentenza. Ne sono passati cinque, e le motivazioni ancora non si vedono. Il prefetto di Vercelli ci ha pensato su un po' («evidentemente non sapeva neanche lui come interpretare la legge») poi ha fatto partire la sospensione. Da oggi il primo cittadino di Vercelli è il vicesindaco, Emanuela Buonanno: «una in gamba», fortunatamente.
A Tiramani la fascia tricolore è stata tolta in base alla legge Severino. La stessa legge che invece gli consente di continuare a fare il parlamentare: perché la legge (anche se nessuno ha mai spiegato il perché di tale bizzarria) tratta più duramente gli amministratori locali di chi ha in mano il Paese. Una sentenza di primo grado fa cadere un ministro solo se l'accusa è di associazione mafiosa o di narcotraffico. Per spodestare un assessore, basta una condanna qualunque. Tiramani continuerà a approvare le leggi, a votare la fiducia al governo, a decidere le sorti della Tv pubblica: ma non potrà più amministrare le dodicimila anime di Borgosesia (Ël Borgh in piemontese; Zam Burg in lingua walser).
È soprattutto questo a fare uscire dai gangheri Tiramani. Poi c'è il resto: ovvero le accuse che lo hanno visto indagato, poi assolto, poi condannato. «Io so di essere vittima di una ingiustizia, perché ho chiesto dei rimborsi per spese che avevo effettivamente sostenuto e che facevano parte del mio mandato: nessuna spesa pazza, solo pranzi di lavoro e alberghi. I giudici di primo grado infatti mi hanno assolto. Sa quanto è durato il processo? Sessantatrè udienze, un'infinità. Ma in appello sono bastate tre udienze per condannarmi».
Tiramani è convinto che la Cassazione lo assolverà. Ma non può fare ricorso in Cassazione per quel problemino delle motivazioni: fin quando i giudici di Torino non si decidono a scrivere la sentenza, nessun ricorso è possibile. Intanto lui rimane lì, un specie di limbo, un politico dimezzato.
«E pensare - racconta - che quando mi arrivò l'avviso di garanzia mi sembrò doveroso lasciare la politica. Poi venni assolto: mi candidai, venni eletto. Adesso mi ritrovo condannato e azzoppato: e ancora non so perché».
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