S empre più agitate le acque del Mediterraneo. È notizia di ieri che la Marina libica, fedele al premier del governo di unita nazionale di Tripoli, Fayez al Sarraj, ha imposto a tute le navi straniere il divieto di soccorrere i migranti nelle cosiddette aree di search and rescue (ricerca e recupero) che vanno molto oltre le 12 miglia nautiche delle acque territoriali.
Questa decisione avrà come primo effetto quello di impedire alle navi delle Ong di intervenire non solo nelle acque territoriali libiche. Le stesse navi si dovranno tenere a una distanza di centinaia di chilometri dalla costa.
A dare la notizia è il generale Abdelhakim Bouhaliya, comandante della base navale di Abu Sitta che ospita anche lo stesso premier Serraj. La Libia, si legge nel comunicato che ha il crisma dell'ufficialità, ha «istituito ufficialmente una zona di ricerca e salvataggio nella quale nessuna nave straniera avrà il diritto di accedere salvo una richiesta espressa alle autorità libiche». Un portavoce della Marina libica ha chiarito che il provvedimento è stato adottato esplicitamente per frenare «le Ong che pretendono di salvare i migranti clandestini sostenendo si tratti di azioni umanitarie». Insomma la Marina libica ribadisce con forza la necessità di far rispettare la sua sovranità.
Benché non esplicitamente fissata nell'annuncio dato dalla Marina libica, l'area search and rescue, secondo le cartine in uso alla missione EuNavFor Med (Sophia), è quella esistente ai tempi del colonnello Muammar Gheddafi e si estende fino ad almeno 97 miglia nautiche dalla costa libica, ossia 180 km. Al momento le navi delle Ong, invece, operano al limite od anche entro le 12 miglia nautiche delle acque territoriali, pari a 22 km.
L'annuncio rende ancor più problematico districarsi tra veti, divieti e allarmi. Tra i quali spicca quello di don Mussi Zerai, il religioso eritreo indagato dalla Procura di Trapani per l'inchiesta sulle presunte collusioni tra scafisti alcune delle Ong che si occupano del recupero dei migranti in difficoltà nelle acque del Mediterraneo. «Nei centri di detenzione in Libia e anche nel Niger - ha spiegato il religioso nel corso di un'intervista a Radio Vaticana -, c'è gente che viene abbandonata, che muore di fame e di sete, perché i percorsi di fuga sono sorvegliati e quindi i trafficanti ora li fanno transitare da altre parti, che sono spesso zone minate e dove non si trova facilmente l'acqua: le persone rischiano la vita». Padre Zerai attacca poi il ministro Marco Minniti. «Il ministro sa benissimo qual è la situazione laggiù, quindi si assume la responsabilità, insieme con le autorità libiche di tutto quello che sta succedendo, gli abusi i maltrattamenti e le torture che avvengono nei centri di detenzione in Libia».
Intanto, dopo la notizia dell'indagine a suo carico da parte della Procura di Trapani, padre Zerai incassa la solidarietà di esponenti del mondo del volontariato e di esponenti del mondo politico. A iniziare da Luigi Manconi. «Conosco da quindici anni padre Zerai - spiega il deputato del Pd - e so quante persone è stato capace di mettere in salvo, sottraendole non solo alla morte nel Mediterraneo, ma anche al rapimento, al sequestro nei campi di prigionia sul Sinai, alle torture, alla vendita come schiavi e al traffico degli organi. Indagare padre Mussie Zerai per favoreggiamento all'immigrazione clandestina è come accusare il Dalai Lama di invocare la pace». Anche l'Arci e le Acli si schierano dalla parte del religioso.
«Ha salvato molte vite - conferma Francesca Chiavacci, presidente dell'Arci -. Insieme con lui abbiamo lottato, sempre, per i diritti e la dignità dei migranti. Diritti che non vengono rispettati nelle carceri libiche in cui l'Europa vorrebbe rispedirli dopo averli intercettati in mare».
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